La storia del Ponte di Mostar: così è stata distrutta una città
A Mostar, nel sud della Bosnia ed Erzegovina, esiste un ponte che non racchiude soltanto secoli di storia della città, ma che è anche diventato il simbolo di tutto il contrario che normalmente quest'opera architettonica rappresenta. Se siamo abituati a pensare a un ponte con una forte carica di significato metaforico in termini di unione, interazione e connettività, lo Stari Most di Mostar incarna divisioni, contrasti e divari.
O meglio, è il suo crollo a simboleggiare tutto questo. Un crollo avvenuto durante la guerra di Bosnia, il 9 novembre 1993, esattamente 4 anni dopo la caduta del muro di Berlino. Qualche anno prima, in quel giorno, si sgretolava la Cortina di Ferro, il muro fisico e culturale più famoso di sempre, sancendo la fine della dicotomia fra Est e Ovest e inaugurando quella che voleva essere l'era delle società aperte, dell'interconnessione fra i popoli e la fine delle barriere fra i cittadini europei. E invece, a distanza di pochi anni, nel pieno delle guerre jugoslave, anche se non si alzavano muri, si distruggevano i ponti. Che alla fine è un po' la stessa cosa.
La storia del ponte di Mostar
Lo Stari Most, in italiano letteralmente "ponte vecchio", è stato costruito nel XVI secolo durante il dominio ottomano, per collegare due distretti della città di Mostar, divisa dal fiume Narenta. L'opera fu commissariata dal sultano Solimano il Magnifico nel 1557 all'architetto Mimar Hayruddin. Gli fu ordinato di costruire un ponte come non si era mai visto prima, di dimensioni e imponenza senza precedenti, pena la morte. Per questo la leggenda narra che il costruttore preparò tutto per il suo funerale nel giorno stesso in cui vennero tolte le impalcature.
Hayruddin era un seguace di Sinan, padre dell'architettura ottomana classica, e costruì il ponte con 456 blocchi di pietra bianca, incastrati fra di loro grazie ad un sistema a tasselli. L'opera, un gioiello del periodo ottomano-medievale, al suo completamento era il ponte ad arco più grande al mondo, e collegava due torri fortificate alle estremità del fiume: la torre Helebija a nord-est e la torre Tara a sud-ovest.
I lavori durarono ben nove anni. Ancora molti aspetti, per quanto riguarda la costruzione, ad oggi rimangono delle incognite. Non si capisce, ad esempio, come abbiano fatto le impalcature a resistere per tutto quel tempo, o come siano state trasportate le pietre da una parte all'altra del fiume. Ad ogni modo, nel 1566 il ponte era finito e restò in piedi per oltre quattrocento anni, unendo due parti della città, storicamente, culturalmente e geograficamente divise.
Lo Stari Most distrutto il 9 novembre 1993
Prima che la regione fosse sconvolta dalle guerre jugoslave nella città di Mostar abitavano da una parte i bosniaci cristiani, mentre dall'altra vivevano i bosgnacchi, una popolazione slava di religione musulmana: due distretti che avevano convissuto in modo pacifico, collegati dallo Stari Most, fino a quel momento. Dopo la morte del dittatore Tito, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia fu attraversata da una serie di conflitti armati che ne determinarono la dissoluzione. La guerra in Bosnia ed Erzegovina scoppiò nel 1992, concludendosi tre anni più tardi, nel 1995, con gli accordi di Dayton.
Fu un conflitto violento, che vide lo scontro delle tre etnie presenti sul territorio: serbi, croati e bosniaci/bosgnacchi. La Bosnia, una regione di eredità ottomana, è sempre stata un teatro di uno scenario multietnico: un anno prima dello scoppio della guerra il 44% della popolazione era musulmana, il 32,5% di origine serba, il 17% croata e un 6% si considerava jugoslava. Durante il primo anno della guerra, croati e bosniaci si allearono insieme contro il comune nemico serbo, combattendo fianco a fianco. In questa prima fase della guerra, la città di Mostar si trovava quindi assediata e bombardata dai serbi: conquistata nell'aprile del 1992 dalle forze di Milošević, fu poi liberata qualche mese più tardi dall'alleanza croato-bosniaca. Ma presto le carte in tavola cambiarono. Le forze croate iniziarono infatti a spingere la popolazione musulmana sempre più verso est, cercando di isolarla e di prendere quanto più possesso del territorio.
E furono proprio i croati a rivolgere i cannoni contro lo Stari Most. A condurre l'attacco fu il generale Slobodan Praljak, un ex professore e direttore di teatro di origine croata, ma nato nella regione dell'Erzegovina. Dopo il referendum per l'indipendenza croata del 1991, Praljak si arruola nell'esercito di Zagabria, per combattere le ostilità serbe. Quando anche i bosniaci diventarono anch'essi il nemico, il generale puntò subito alla conquista delle terre da cui proveniva per annetterle alla Croazia. Fra queste, quindi, anche la città di Mostar. Il ponte della città non è mai stato lungo la linea del fronte, ma era un simbolo fondamentale per l'identità multiculturale bosniaca, e in quanto tale uno dei primi obiettivi da demolire.
Nella loro avanzata, le truppe croate iniziarono a deportare in massa i cittadini musulmani, iniziando una durissima operazione di pulizia etnica. Il ponte di Mostar non è solo un'opera architettonica che facilita la viabilità, ma è anche un importante simbolo della convivenza di cristiani e musulmani in città, ciò che tiene unite le due comunità. Con la distruzione del ponte, si sarebbe creata una divisione e un'impronta psicologica sulla popolazione necessaria per la riuscita dell'assedio. Così Praljak decise di sparare circa 60 colpi di cannone verso il ponte ottomano, che crollò nel giorno dell'anniversario della caduta del Berliner Mauer, dopo 427 anni di vita.
La ricostruzione del ponte di Mostar
Negli anni che seguirono vennero commesse diverse atrocità e crimini di guerra da tutte le parti coinvolte: il 30 agosto 1995 la Nato decide di dare il via all'Operazione Deliberate Force, infliggendo gravi danni alle truppe serbe e costringendole al tavolo delle negoziazioni. In quello stesso anno si giunse all'accordo di Dayton, firmato in Ohio nel novembre del 1995, a cui parteciparono tutti i maggiori rappresentanti politici della regione, con la mediazione di Europa e Stati Uniti.
Alla fine del conflitto, il ponte venne incluso nel Patrimonio dell'Umanità e ricostruito sotto il patrocinio dell'Unesco. Gli esperti a cui fu dato il compito di rimettere in piedi l'opera architettonica ottomana utilizzarono delle tecniche antiche, in modo dal riprodurlo nel modo più fedele possibile all'originale. Vennero cercate addirittura le stesse pietre del XVI secolo che erano cadute nel fiume in seguito ai bombardamenti. La ricostruzione dello Stari Most venne finanziata da diversi aiuti internazionali per un totale di 12 milioni di euro: l'Italia, con un contributo di 3 milioni, fu il Paese che più si impegnò nell'opera di restauro. Nel 2004 il ponte venne riaperto, anche se le profondi ferite e divisioni che la guerra ha creato fra gli abitanti che abitano alle sue estremità rimangono.
Dopo la guerra Slobodan Praljak lasciò l'esercito per dedicarsi agli affari. Lui stesso si consegnò alla Corte Penale Internazionale dell'Aa quando venne accusato insieme ad altri sei politici croato-bosniaci per crimini di guerra. L'ex generale, che ha sempre negato tutte le accuse, si è suicidato in aula il 29 novembre 2017, quando la Corte lo condannò a 20 anni di carcere. Al pronunciamento della sentenza, Praljak si alzò in piedi, affermando: "Slobodan Praljak non è un criminale di guerra e con sdegno respingo la sentenza". Ingerì quindi una fiala di cianuro che lo uccise.
Il Ponte di Mostar oggi: cosa significa abbattere un ponte
Il Tribunale dell'Aia che giudicò i sei croati, sul bombardamento del ponte di Mostar affermò: "La distruzione dello Stari Most rappresenta una violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra: un atto cosciente da parte degli autori che miravano a distruggere l'identità culturale attraverso la distruzione materiale e l'avvilimento della popolazione".
Oggi il ponte di Mostar continua a ricordare la separazione e disgregazione fra la popolazione della città. Da una parte vivono i croati e dall'altra i musulmani: il ponte è tornato in piedi, il collegamento esiste di nuovo, ma i due distretti sembrano più distanti di prima. Tutto è separato e distinto. Il ponte pare aver perso il suo potere di unire ciò che nasce diviso: di fatto, da una parte e dall'altra dello Stari Most è come se esistessero due città. Tutto è doppio. Ci sono due poste, due stazioni, le scuole sono diverse così come gli altri servizi comunali.
La distruzione del ponte non è stata importante da un punto di vista strategico-militare, ma ha avuto delle conseguenze devastanti. Ha portato il conflitto dentro la dimensione identitaria e culturale della popolazione: distruggendo qualcosa di materiale ha creato un sentimento di distaccamento e ha privato la città di un carattere multiculturale che fino a quel momento le apparteneva. La distruzione della simbologia in guerra non è qualcosa di nuovo. Il modo migliore per annientare un nemico è cancellare la sua storia: che viene spesso e volentieri raccontata attraverso i simboli. Il fatto che Slobodan Praljak abbia deciso di farlo proprio nel giorno in cui quattro anni prima cadeva il muro di Berlino non è causale: un'ironia tanto sottile quanto spietata per ricordare che non sono solo le barriere fisiche a dividere le persone. È sufficiente demolire ciò che le unisce.