La Sicilia muore di sete: tra dighe all’asciutto e “condotte colabrodo”
La terra non è ancora morta di sete, ma poco ci manca. Gli agricoltori che si rifornivano di acqua al lago Sciaguana, quest'estate, avranno difficoltà a irrigare perché l'invaso ha lasciato il posto a un deserto, ma anche coltivatori di altre aree si preparano a tre mesi di siccità. Lo sanno gli imprenditori dell'ortofrutta e lo sa il Consorzio di bonifica, la struttura regionale che gestisce l'erogazione dell'acqua a fini irrigui. Perfino la diga Pozzillo, sulla carta la più grande di Sicilia, piange miseria. "Il Consorzio ha bisogno, per fornire l'acqua per l'irrigazione, di 55 milioni di metri cubi di acqua. Da Pozzillo, quest'anno, potremo prenderne al massimo 21 milioni di metri cubi". Meno della metà del necessario. Un'arsura annunciata.
A spiegarlo è Francesco Nicodemo, commissario straordinario dei Consorzi di bonifica di mezza Sicilia. Le condotte che amministra attingono acqua dai laghi artificiali di Sicilia orientale e centrale. A quel Consorzio si rivolgeranno gli agricoltori orfani di Sciaguana, ormai ridotta a una pianura di zolle secche. La procura di Enna ha aperto un'inchiesta per disastro colposo; la Regione, che tramite il Dipartimento acque aveva il compito di tutelare acque e pesci, ha avviato un'indagine interna. "Stiamo cercando di trovare delle soluzioni sistemiche affinché quanto accaduto non si ripeta in futuro", ha detto giovedì l'assessora regionale Daniela Baglieri, comunicando l'insediamento della commissione di esperti chiamata a fare gli accertamenti.
"La diga Sciaguana era una diga malata: qualcosa che non andava c'era, visto che la quantità di acqua al suo interno è sempre andata diminuendo", commenta Nicodemo. Secondo quanto risulta a Fanpage.it, che le paratie di Sciaguana perdessero era una informazione nota da tempo ai tecnici siciliani. Allo stesso modo è noto che uno dei problemi principali dei laghi artificiali è l'interrimento: in termini non tecnici, è l'innalzamento del fondo dell'invaso per colpa del fango. Quando piove, i fiumi che arrivano ai laghi si ingrossano e trascinano con sé i detriti che si depositano sotto alla superficie. L'acqua si alza, ma non perché ce ne sia di più.
"Si devono fare interventi di sistemazione arborea e consolidamento sui torrenti, per fare in modo che trasportino meno detriti e mantengano puliti i fondi delle dighe", spiega a questa testata Ascenzio Lociuro, caposettore del Consorzio di bonifica di Enna. "Interventi di questo genere, che io mi ricordi, non se ne fanno dall'inizio degli anni Novanta, perché poi non sono più arrivati finanziamenti". Trent'anni. E da quarant'anni, aggiunge Nicodemo, non si interviene strutturalmente per sostituire e riparare le condotte che portano l'acqua dalle dighe ai campi. "Sono condotte colabrodo", ammette il commissario straordinario. Quest'anno i lavoratori stagionali sono impiegati nella sistemazione, caso per caso, dei buchi più evidenti. Ma i rattoppi non bastano. "Non si può dire che si è fatta una diga e basta, bisogna intervenire, fare manutenzione", prosegue Francesco Nicodemo. E servono i progetti cantierabili per le grandi opere: fatti quelli, i soldi arrivano. Ci sono svariati milioni dal Fondo sviluppo e coesione 2014-2020, destinati proprio alle dighe, non ancora spesi. Ci sono più di 60 milioni di euro per la diga Pietrarossa. È stato rispolverato il progetto della diga di Bolo, la cui idea di realizzazione risale indietro nel tempo fino, addirittura, al 1969.
"Abbiamo saputo che quest'anno, da Pozzillo, rischiamo di avere acqua solo per 15 giorni", racconta Agatino Severino, proprietario di un piccolo uliveto nel territorio di Centuripe. Accanto a lui c'è Benedetto Benfatto, 43 anni, imprenditore agrumicolo: ha dieci ettari di arance, mandarini e ulivi. "Le condotte perdono acqua, noi aderiamo a un consorzio privato che attinge a Pozzillo, ma non abbiamo grandi speranze". Le gemme che avrebbero dovuto essere arance e mandarini sono troppo fragili e gli scivolano nelle mani appena passa le dita tra le foglie. "Soldi che perdiamo, frutta che muore", racconta. "Un anno di lavoro che rischia di andare sprecato. Ho scelto di fare questo mestiere per non abbandonare i terreni di famiglia – conclude – ma così è veramente troppo difficile".