La scommessa vinta di Matteo Salvini: rianimare un partito morto, la Lega dal 4 al 18%
Quando diventa segretario della Lega Nord nel dicembre del 2013, Matteo Salvini eredita un partito ai minimi storici, che alle elezioni è sceso al 4%, travolto dagli scandali del ‘cerchio magico' del vecchio leader Umberto Bossi, tra diamanti della Tanzania e la laurea albanese del Trota. Appoggiato da Roberto Maroni, Luca Zaia e Flavio Tosi, la sua era immaginata come una segreteria di transizione. Ora, cinque anni dopo, sappiamo come è andata a finire: Maroni è stato marginalizzato nelle sue ambizioni, Tosi estromesso da tempo, Zaia confinato nel suo feudo in Veneto. Salvini arriva alla guida del Carroccio che il centrodestra è diviso, Berlusconi appoggia il governo tecnico di Mario Monti, e l'eurodeputato si trova di fronte un enorme spazio politico che riesce ad occupare velocissimamente presentandosi come l'unica forza politica di opposizione a destra. Il neosegretario recupera la retorica anti immigrazione più radicale della Lega degli anni '90 e, contemporaneamente, dà una sterzata decisamente antieuropeista attaccando la tecnocrazia di Bruxelles, invocando l'uscita dall'Euro.
Pochi mesi e passaggi in televisione e subito sarà chiaro a tutti che dentro la Lega non c'è più storia: il paese scopre un nuovo leader. Aggressivo e scamiciato, diretto e concreto, investe in un progetto ambizioso: fare della Lega un partito nazionale e non regionalista, nazionalista e classicamente di destra. Va a scuola da Marine Le Pen e dal Front National, che ha conosciuto all'Europarlamento, mentre invoca la politica della ruspa contro rom, migranti, centri sociali e zecche, impone la parola d'ordine della preferenza nazionale: "Prima gli italiani". Si propone da subito come nuovo leader del centrodestra, capisce che la destra di Giorgia Meloni non ha lo stesso appeal e che Silvio Berlusconi, addomesticato dalla lettera della Bce e messo fuori gioco dai guai giudiziari prima, costretto al Patto del Nazareno da Renzi dopo, dovrà arrendersi alla sua energia.
Oggi, quasi cinque anni dopo, Salvini ha vinto la sua scommessa conquistando il 17,5% dei consensi su scala nazionale, imponendosi come primo partito del centrodestra e rivendicando per sé l'incarico di formare un governo. Un risultato reso possibile dallo sfondamento (per la prima volta), della Lega al Sud Italia: se già in Toscana, Marche e Umbria aveva ottenuto risultati più che apprezzabili, arrivando anche a governare alcuni comuni, la Lega (senza più l'aggettivo ‘Nord'), è con il voto di ieri che la metamorfosi è completata con percentuali sopra il 5% in Campania, Molise, Calabria, Sicilia e Puglia.
Matteo Salvini, assieme al M5s e a Luigi Di Maio, è il vero vincitore di questa tornata elettorale. Un trionfo reso possibile dalla capacità avuta in questi anni di costringere tutti gli avversari a inseguirlo sul suo terreno, dettando l'agenda politica in materia di immigrazione e sicurezza (ovviamente), ma anche sui temi sociali, a cominciare da pensioni e Riforma Fornero, proponendo un'uscita dalla crisi da destra con una ricetta a base di sovranità nazionale. Salvini prima di vincere nelle urne ha vinto nel paese, facendo diventare senso comune in ampi settori della società le parole d'ordine che prima appartenevano solo alla destra radicale, privandole però di un vestito ideologico indigeribile: come spiegare altrimenti che in televisione ormai sia normale parlare di ‘sostituzione etnica', ovvero dell'idea che razionalmente sia in atto un piano per sostituire i popoli ‘originari' dei paesi europei? Il Partito democratico ha capitolato quando Matteo Renzi ha parlato di "aiutarli a casa loro" riferito ai migranti, e poi con le politiche del ministro Minniti, in prima fila nella lotta alle Ong assieme a Di Maio. A questo punto: perché scegliere la brutta copia se si può scegliere l'originale?