Armida è nata nel 1956 ed ha trascorso 30 anni della sua vita nel manicomio di Maggiano a Lucca. Capelli biondi e arruffati, grandi occhi celesti un po' spaesati e un tripudio di bracciali e collane che tintinnano al suo passaggio. Arriva nel chiostro dell'ormai ex manicomio sotto braccio a Melania, la donna che da quasi 20 anni si prende cura di lei. Oggi Armida è felice, ha trovato finalmente una famiglia dopo una vita trascorsa rinchiusa tra quattro mura, nonostante non avesse una precisa diagnosi da giustificare l'internamento.
La vita in manicomio
Un tempo era davvero facile finire in manicomio senza una motivazione reale. Bastava ad esempio non avere i genitori, poiché quando gli orfanotrofi diventavano troppo affollati tanti ragazzi venivano ricoverati e il loro destino da quel momento era segnato: nessuno sarebbe venuto a prenderli perciò la loro vita si sarebbe conclusa in quell'inferno. La vita di Armida è stata segnata dall'abbandono fin da quando era in fasce. La madre, una prostituta, si sbarazzò di lei appena nata. Armida ha varcato la soglia del manicomio a soli 12 anni dopo aver passato la sua infanzia in vari orfanotrofi. "Non ci facevano mai uscire, eravamo rinchiusi giorno e notte – racconta mentre percorre i vecchi corridoi ormai abbandonati della struttura – ci picchiavano e ci legavano al letto, facevano cose spaventose".
Una nuova famiglia
La lenta dismissione della struttura è iniziata nel 1999 in notevole ritardo rispetto all'approvazione della famosa legge Basaglia del 1978. Di colpo si sono aperte le porte del manicomio per gli internati, spesso spaventati, confusi e per niente pronti al mondo lì fuori. Nel 1995 iniziò a prendere forma un'assistenza eterofamiliare che prevedesse un contributo economico per coloro che intendevano offrire la propria disponibilità ad assistere e accogliere persone che avessero bisogno di riavvicinarsi ad una vita sociale e che non avevano una famiglia alle spalle. Spesso infatti gli ex internati dei manicomi non avevano nessuno al mondo e venivano brutalmente rifiutati dai loro familiari rimasti in vita. La macchina è subito partita con la creazione di un gruppo di lavoro con il compito di scegliere le famiglie che si erano messe a disposizione per prendere in affidamento gli ex pazienti, selezionandole tramite colloqui psicologici. Dopo un periodo di"avvicinamento" per la conoscenza reciproca si passa alla residenza del paziente in famiglia per un periodo di prova che solo successivamente viene deliberato come stanziale. Gli I.E.S.A (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti) hanno coinvolto una decina di ex internati ed una delle prime persone a sperimentare questa forma di assistenza è stata proprio Armida. Dal 2000 vive con la signora Melania, sua coetanea che ha scelto di accoglierla a casa sua. Da quel momento sono inseparabili: "Siamo due amiche" esclama Melania ma poi Armida precisa "Lei è come una mamma per me", la mamma che non ha mai avuto. "Il caso di Armida è un emblema di come le buone pratiche riescano poi a sortire degli effetti clinici sorprendenti sui pazienti" spiega lo psichiatra Enrico Marchi, membro della Fondazione Tobino ed è uno dei dottori ad essersi occupato degli anni di questi affidi.