video suggerito
video suggerito

La ricerca nell’università: sacrificio, abnegazione e voglia di fuggire

Massimo Sandal, un giovane ricercatore di Cambridge, dopo le dichiarazioni fatte dal proprio blog, racconta del funzionamento della ricerca nell’ambito accademico.
A cura di Nadia Vitali
216 CONDIVISIONI
f1999d05c1f1863d09370787bdb3c97b_medium

Se vi chiedessi che lavoro avreste voluto fare da bambini, le risposte, con poche eccezioni, sarebbero più o meno tutte uguali: l'astronauta (non so, in realtà, se è ancora il più gettonato), la ballerina (ho quasi il timore che oggi si risponda "la velina"), il medico per salvare tante vite, il veterinario; io ad esempio volevo fare l'archeologa e, naturalmente, aspiravo a diventare di gran lunga più brava di Indiana Jones (anche se avrei preferito evitare tutte quelle avventure con topi, serpenti, scarafaggi); Massimo Sandal un ragazzo di 29 anni laureato a Bologna in Biotecnologie Industriali e attualmente ricercatore a Cambridge (qualche anno fa si era parlato di un suo lavoro sul Parkinson) da bambino avrebbe voluto diventare uno scienziato. Ed è  innegabile che, a differenza mia, sia riuscito a portare avanti il proprio sogno.

Ecco perché, quando ha pubblicato un lungo intervento in inglese sul proprio blog, dal titolo Goodbye academia, I get a life,un lungo dibattito si è scatenato, al punto che, non solo lo stesso ragazzo è tornato a parlarne, ma Il Post gli ha chiesto di spiegare, anche a coloro che sono al di fuori della vita accademica, le ragioni di questa "sensibilità ai temi della vita dei ricercatori" e, a conti fatti, perché avesse maturato l'intenzione di lasciare la propria passione.

Il quadro che emerge dalle parole di un ragazzo che pure ha avuto la fortuna di lavorare fuori dall'Italia (fortuna che innegabilmente dipende dalle capacità che ha mostrato) è quello di un'avvilente separazione tra quello che i non addetti ai lavori immaginano a proposito dei ricercatori e quello che effettivamente il lavoro di ricercatore è.

Dimenticatevi scienziati pazzi presi dalla propria ricerca per passione, dimenticate il professore rinchiuso nel proprio laboratorio con le provette in mano, a notte fonda in compagnia, al massimo, del gatto; dimenticate la serena felicità negli occhi di chi immagina che sta creando qualcosa per un mondo migliore e collabora con altre menti illuminate come la sua.

Per lo più, spiega il Sandal a chi non lo sapeva, le ricerche quotidianamente sono in mano a dottorandi e postdoc, anonimi e sottopagati, mentre i professori "hanno un ruolo fondamentale, per carità: ma più di guida, networking e fundraising che altro". La base, dunque, di una piramide gerarchica che, però, è mobile: finito il dottorato, finita la ricerca post doc, si deve uscire per trovare un altro modo di far ricerca.

"La ricerca scientifica funziona come un’azienda che sostituisse tutto il suo dipartimento ricerca e sviluppo ogni dieci anni. Non so se questo sia normale, ma mi colpisce sempre: è come se uno buttasse via tutti gli ingegneri in una azienda tecnologica e ne riassumesse di nuovi, neolaureati, ogni 10 anni, a parte i pochissimi che diventano dirigenti." Fare il ricercatore a vita non è possibile, non nell'ambito universitario: dopo ci si deve lanciare nell'elaborazione di progetti e reperimento di fondi, in pratica nel fare del marketing di se stessi, e ben poca ricerca.

Per altro la competizione sia da dottorando che, soprattutto, dopo, crea praticamente un clima di costante conflitto: "situazioni estremamente tossiche" vengono definite, in cui i progetti di ciascuno vengono tenuti blindati nel terrore che altri possano appropriarsene, quando non si ricorre allo scopiazzare articoli o all'inventare dati, in nome di una competitività che uccide tutti i presupposti della ricerca, della scoperta, del sapere.

"Nota generale: “competitivo” non significa necessariamente “meritocratico”. Spesso le due parole vengono considerate sinonimi. La cosa andrebbe tenuta bene in mente da chi chiede più “competitivita`” nella ricerca italiana. La ricerca italiana dev’essere più meritocratica, non più competitiva. Si compete già, in Italia, solo che non si fa in base al merito."

Tutto questo, con la certezza che il dopo è ancora più oscuro e preoccupante: la tempra psicologica per continuare questo tipo di vita non tutti ce l'hanno, neanche Massimo Sandal che a cinque anni voleva fare lo scienziato. Ho un'amica che per anni ha lavorato nell'università in Italia: nel suo modo di pensare lavorare totalmente gratis era addirittura non un'ingiustizia da tollerare, ma una cosa normale. Un sistema, questo, che dunque va avanti proprio perché c'è chi crede fermamente nella ricerca, chi prosegue ed invecchia nell'università, molto spesso perdendo anche la possibilità di farsi una famiglia, per votarsi ad un tipo di lavoro che impegna la mente anche quando si è fuori dal laboratorio.

Siamo lontani dalla casta di privilegiati, per sola virtù divina, che sceglie di seguire una passione che sarà la linfa vitale di tutta la propria esistenza: il mondo sta cambiando anche sotto questo aspetto ed è da vedere per quanto tempo ancora, la ricerca potrà sopravvivere in questa maniera, creando eserciti di giovani disposti a sacrificare ogni altro aspetto della propria vita ad un sogno infantile che è sempre ad un passo dall'essere realizzato.

216 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views