La partita del contagio. Parla uno degli ultras contagiato dopo Atalanta-Valencia
L’hanno definita la partita del contagio. Atalanta-Valencia non è stata solo uno dei giorni più gloriosi della squadra bergamasca ma, secondo alcuni, è stato anche uno dei momenti chiave per la diffusione del coronavirus in Lombardia poco prima dell’esplosione dell’emergenza in tutto il Nord. “Sono tanti i tifosi e i collaboratori dell’Atalanta che se ne sono andati per il Covid-19”, racconta Matteo, un fedelissimo della squadra che dopo aver assistito alla partita di Champions si è ammalato ed è stato ricoverato all’ospedale di Bergamo proprio nei giorni in cui la struttura stava per collassare. È rimasto attaccato a una macchina mentre attorno a sé vedeva il viavai frenetico di lettighe con pazienti gravi e, spesso, morti. Lo abbiamo incontrato via Skype, ora è in isolamento a casa in attesa di ricevere il secondo tampone che certificherà la sua guarigione e gli consentirà di poter uscire.
Una vita per l'Atalanta
Matteo ha 56 anni e vive per l’Atalanta. “Il calcio rappresenta il 60 per cento della mia giornata, mia figlia gioca nella A under 17 dell’Atalanta”, racconta con grande orgoglio. Aspettava da anni di poter assistere a un trionfo in Champions della sua amata. Quel giorno, il 19 febbraio, lui era in curva con figli e amici. Ha abbracciato, saltato e urlato assieme agli altri in quella notte magica. “In realtà ho visto poco perché davanti a me c’era un bandierone, ma quello era il momento per sostenere la squadra con tutta l’energia possibile”.
L’incubo è iniziato al rientro a casa, quando ha avvertito i primi sintomi della malattia. “Prima ho avuto dei brividi di freddo ma pensavo fosse solo un po’ di stanchezza, poi la mattina dopo stavo ancora male ma sono andato a lavoro. La mattina dopo, però, avevo 39 e mezzo di febbre e mi sono preoccupato”.
Matteo ammette che l’idea di avere il coronavirus non lo aveva neppure sfiorato perché si iniziava a parlare del contagio proprio quel giorno e lui, non avendo avuto alcun contatto con il paziente zero, si sentiva sicuro. La conferma era arrivata anche dagli esperti: “Ho chiamato il medico, poi il 112, i numeri verdi e tutti mi hanno detto di stare tranquillo perché se non avevo frequentato Lodi o Codogno, sicuramente non era coronavirus”.
Il ricovero all'ospedale di Bergamo prima del collasso
Ma le cose non migliorano. Sta sempre peggio, non riesce a respirare e neppure a parlare. Ogni volta che apre bocca tossisce, ogni singolo movimento gli crea una fatica immensa. Due passi sono come una scalata in montagna. Così decide di andare all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, che di lì a poco diventerà il cuore dell’emergenza. Lo fanno accomodare in uno stanzone con altre 20 persone, alcuni hanno chiaramente i sintomi del Covid-19, altri sono al pronto soccorso per altri motivi (ad esempio problemi alle articolazioni) ma trascorrono ore a stretto contatto con soggetti a rischio. “Durante l’attesa c’erano dei bocchettoni per l’aria, noi eravamo tutti attaccati lì con dei tubicini – ricorda il tifoso – Sono arrivato alle 19 di sabato 29, mi hanno visitato alle 5 e mezzo del mattino. Si stava già creando un ammasso incredibile di persone”.
Il casco salvavita e la vicina tifosa del Milan
I medici capiscono subito che è grave, lo mandano in Pneumologia e la situazione peggiore. Di quei momenti restano i ricordi della paura, della commozione per il personale sanitario distrutto da ore di lavoro e di stress eppure capace di accogliere tutti con un sorriso nascosto dalla mascherina. E restano i selfie della maschera per respirare, del casco C-Pap, che rendeva Matteo e gli altri simili ad astronauti scesi su un altro pianeta.
Dopo un giorno e mezzo con la zavorra le condizioni migliorano e Matteo viene trasferito al reparto Malattie infettive, nella stessa stanza di una signora di Alzano Lombardo di 76 anni che tifa per il Milan. I giorni passano, il 56enne migliora, la donna meno. Così, per quanto possibile, la aiuta a sollevarsi, a fare piccoli movimenti. Solo su una cosa è impassibile: il ritorno dell’Atalanta a Valencia. “Le avevo detto che su quello non si discuteva e che avrebbe fatto bene a cambiare squadra”.
Dimesso nel giorno del ritorno col Valencia
La fortuna, stavolta, lo aiuta. Il 10 marzo è il giorno della sfida ma soprattutto quello in cui viene dimesso. Torna a casa, in quarantena nella taverna della sua villetta. Continua a parlare a distanza con i suoi amici di stadio, dà consigli a un tifoso atalantino bloccato in Nigeria, gli invia i vademecum di Regione Lombardia da mostrare ai medici africani. Fa i conti con le controindicazioni della malattia, tra cui l'assenza completa di gusto e olfatto.
E poi aspetta. Aspetta che qualcuno gli faccia il secondo tampone che certifichi la sua guarigione e gli consenta di poter tornare a lavorare, o quantomeno di andare al supermercato.
“Nessuno sa chi deve venire, l’Asl dice una cosa, il Comune un’altra. E io resto qui – spiega stavolta con amarezza – Qui la situazione è terribile. Ogni volta che apro Facebook o WhatsApp c’è solo da fare condoglianze. Io probabilmente ero già stato contagiato prima della partita ma quella occasione è stata un grande detonatore per tanta gente. A me è alla fine è andata bene, per molti altri bergamaschi, tra cui tanti tifosi, non è stato così”.