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Omicidio Saman Abbas

La nuova verità processuale e quel rapporto irrazionale tra madre e figlio: vi racconto il caso Saman Abbas

Il primo processo si era concluso con l’assoluzione dei due cugini di Saman, poi in appello condannati all’ergastolo. Come si è arrivati a questo risultato? In questa storia sin dall’inizio non c’è mai stata la pistola fumante, un elemento probatorio indiscutibile che potesse accertare chi uccise Saman sul viottolo sterrato davanti alla cascina agricola dove la famiglia lavorava le terre.
A cura di Giammarco Menga
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Pochi giorni fa i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bologna hanno emesso la sentenza di secondo grado per la morte di Saman Abbas, uccisa dalla famiglia in nome dell’onore nella notte tra il 30 aprile e il 1º maggio del 2021 a Novellara. Ergastolo per omicidio e soppressione di cadavere per i genitori e per i due cugini, 22 anni di carcere per lo zio Danish, colui che fece ritrovare il corpo della 18enne pakistana a distanza di 18 mesi dal delitto.

Una decisione che ha ribaltato quella del primo processo che si era concluso con l’assoluzione dei due cugini di Saman, ritenuti totalmente estranei ai fatti dai giudici di Reggio Emilia. Ma come si è arrivati a questo risultato? In questa storia sin dall’inizio non c’è mai stata la pistola fumante, un elemento probatorio indiscutibile che potesse accertare chi uccise Saman sul viottolo sterrato davanti alla cascina agricola dove la famiglia lavorava le terre.

L’occhio elettronico delle telecamere, fedeli testimoni degli ultimi istanti di vita di Saman, non hanno mai ripreso i momenti dell’aggressione e soprattutto chi strinse il collo della 18enne fino a soffocarla. E allora decisivo nel bene e nel male per le sorti degli imputati, è stato il racconto di Ali Haider, il fratello minore di Saman, l’unico testimone oculare di quei momenti. Avrebbe visto dall’uscio della porta di casa quanto successe sul viottolo sterrato. Saman presa per il collo dallo zio Danish e trascinata dentro la serra insieme ai due cugini Ikram e Nomanulhaq che aiutarono Danish anche nella soppressione del cadavere all’interno di una buca di oltre un metro e mezzo di profondità.

Eppure la sua deposizione fu ritenuta inattendibile dai giudici di primo grado perché per loro il fratello di Saman non avrebbe mai potuto vedere in piena notte il volto o anche solo la sagoma dei familiari. La stessa Corte lo giudicò pure indagabile, ritenendolo sostanzialmente partecipe dell’omicidio (non premeditato) ai danni della sorella maggiore.

Saman e sua madre
Saman e sua madre

A mio avviso, però, all’epoca non si tenne conto di una serie di aspetti che sarebbe stato opportuno ricordare. Perché un ragazzino di 16 anni avrebbe mai dovuto testimoniare contro la sua famiglia senza che ci fosse un fondo di verità? Non dobbiamo dimenticare l’ambiente nel quale visse fino a quel momento, le pressioni psicologiche ricevute in quanto membro del clan, il ruolo preminente della figura maschile e la sua giovane età. Insomma, seppure sia stato colpevole di aver registrato di nascosto le chat della sorella con il fidanzatino Saqib, come gli chiesero i genitori, al suo posto nella stessa situazione noi avremmo potuto fare diversamente? Dico questo anche alla luce di quando lo incontrai in forma privata qualche mese fa e notai nei suoi occhi un vero pentimento e la volontà di diventare la persona che la sorella sognava di essere, libera e a metà tra Oriente e Occidente.

Inoltre, molti dimenticano che fu lui a metà maggio del 2021 a confessare per la prima volta ai Carabinieri che Saman non si era allontanata, come quando era scappata in Belgio a giugno del 2020, ma era stata uccisa dalla famiglia. Si trovava in viaggio verso Reggio Emilia con il comandante della stazione dei carabinieri di Novellara, di ritorno da Imperia dove era stato fermato qualche giorno prima quando aveva provato a seguire zio e cugini nella fuga in Francia. In quel viaggio Ali Haider scoppiò in un pianto disperato, facendo subito il nome dello zio Danish come esecutore materiale dell’omicidio della sorella.

In effetti, la responsabilità di Danish è stata poi confermata sia dalla prima corte che dai giudici d’appello. Insomma, nonostante parziali verità, indecisioni e imprecisioni, il fratello di Saman non ha mai sostanzialmente cambiato versione sui punti chiave della vicenda. E, a quanto sembra, in attesa delle motivazioni, i giudici di secondo grado gli hanno riconosciuto quell’attendibilità che nel primo processo non aveva ricevuto. I cugini erano presenti sulla scena del crimine e sono stati condannati soprattutto grazie alla sua testimonianza. Un atto di coraggio che si è percepito in modo chiaro durante la deposizione di quest’ultimo processo.

Ali Haider, oggi ventenne, è stato chiamato a ripetere quanto vide la notte del 30 aprile 2021 quando Saman fu uccisa. Si è presentato davanti alla Corte d’Appello di Bologna con orecchini e tatuaggi, forse forma di espressione del suo tormento interiore. Già perché per i musulmani gli orecchini possono indossarli solo le donne e i tatuaggi, che macchiano in modo indelebile la pelle, sono proibiti perché “sporcano” il corpo, ritenuto sacro.

Danish Hasnain (a sinistra), Saman Abbas (al centro) e Shabbar Abbas (a destra)
Danish Hasnain (a sinistra), Saman Abbas (al centro) e Shabbar Abbas (a destra)

In aula, Ali ha ribadito che si è trattato di un omicidio familiare, condiviso dalla collettività, e ha accusato ancora una volta genitori, cugini e zio che si trovavano a pochi metri da lui. Pensate a un ragazzo di vent’anni che racconta qualcosa per cui perderà per sempre tutta la sua famiglia, “mandata in galera” tramite le sue parole. Eppure lui lo ha fatto, ribadendo la sua verità. Nonostante attimi di cedimento e di tenerezza come quando il suo avvocato ha fatto sapere del desiderio del fratello di Saman di voler rivedere la madre a cui in questi mesi ha mandato diverse lettere in carcere. Madre e figlio non si vedevano dal 1º maggio 2021 quando lei e il marito Shabbar abbandonarono Ali a Novellara, partendo di fretta e furia per il Pakistan.

Una partenza programmata da tempo, secondo la difesa dei due imputati, eppure un viaggio organizzato proprio il giorno dopo la scomparsa di Saman e per il quale non ci sarebbe stato posto né per lui né per la stessa Saman che nell’estate del 2021 avrebbe dovuto sposare il cugino promesso sposo Akmal, di dieci anni più grande. Un matrimonio mandato in frantumi proprio da Saman e dalla sua voglia sfrenata di ribellione e di libertà.

Ma quello che più mi ha colpito in questo processo di appello è stato proprio il rapporto indissolubile tra un figlio e una madre, al di là pure del raziocinio umano e del rancore. Basta pensare alla madre Nazia che in aula ha sconfessato la testimonianza del figlio pur di salvare i segreti del clan. In tutte le udienze si è sempre presentata con il velo e una mascherina chirurgica per nascondere il più possibile le espressioni del viso. Non ha pianto quando sono state trasmesse le ultime immagini in vita della figlia, ma si è lamentata solo per comunicare agli agenti della polizia penitenziaria di non sentirsi bene. In tutte le udienze è rimasta con il capo chino e i gomiti poggiati sulle ginocchia, senza far trasparire emozioni. Quando è stato il suo turno di parlare davanti ai giudici, ha detto senza indecisioni che il figlio Ali sarebbe stato imboccato da qualcuno per dire quanto ha riferito, ma in realtà non avrebbe visto proprio nulla.

Quindi sul viottolo sterrato Saman si sarebbe allontanata da sola, perdendosi nel buio e senza essere aggredita dallo zio e dai cugini. Anche perché, dice Nazia, “se avessi visto mia figlia presa da qualcuno, l’avrei difesa perché sono una mamma”. Una frase che ha suscitato più di una polemica se si considera che per la giustizia è stata proprio lei ad accompagnare Saman nei suoi ultimi metri di vita. Mandante di un omicidio premeditato secondo i giudici di appello.

Ma alla fine, nonostante sia lei che il figlio minore Ali Haider si sono attaccati a vicenda, entrambi hanno chiesto espressamente di volersi incontrare. Questo perché probabilmente l’affetto primordiale di un figlio per una madre e viceversa va oltre tutto.

Lo stesso sentimento che, però, non ha impedito a Nazia e al marito Shabbar di uccidere Saman nel nome dell’onore del clan, da preservare a tutti i costi. D’altronde, lo disse tra le righe lo stesso padre di Saman, durante le spontanee dichiarazioni rilasciate alla fine del processo di primo grado: “Una madre e un padre ci pensano 100mila volte prima di uccidere una figlia”.

Ecco, forse i genitori di Saman ci hanno pensato una volta in più per decidere che l’omicidio della figlia fosse la soluzione estrema, ma inevitabile.

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Abruzzese, nato a Sulmona, terra dei confetti, sono giornalista televisivo e lavoro da quasi dieci anni a Mediaset. Dal 2021 sono cronista del programma Quarto Grado con cui ho seguito molti grandi casi della cronaca nera italiana. Ho scritto anche tre libri, l'ultimo sul caso di Saman Abbas.
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