La morte di Bernardo Provenzano tra analisi storica e immaginario virtuale
Se cercate in Google notizie sulla morte di Bernardo Provenzano, il motore di ricerca vi suggerirà alcuni abbinamenti. Quello che mi ha più colpito è questo: “Provenzano sparava come un dio”. La frase viene ripetuta in diversi articoli online a partire dall’aprile del 2006 quando, pochi giorni dopo la cattura del successore di Riina, il boss Angelo Siino, passato alla storia come il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, tirava fuori un’espressione attribuita a Luciano Liggio. Il capostipite delle belve corleonesi pare avesse detto, riferendosi a Binnu, che sparava come un dio ma che aveva un cervello di gallina.
Considerando come sono andate le cose Liggio si sbagliava, almeno per quanto riguarda la dimensione della corteccia cerebrale. In ogni caso la forza di Provenzano, oltre la violenza bruta, è stata la capacità di mantenersi lucido anche nei momenti di massima tensione. Di agire, mentre il suo mondo crollava sotto i colpi della repressione giudiziaria, secondo la logica della civiltà contadina in cui non conta la preparazione culturale o la speculazione teorica, ma l’intuito, la furbizia e la rapidità d’esecuzione. Principi universali che consentono di sopravvivere ed affermarsi in un contesto di violenza, tradimenti e ambiguità come Cosa nostra.
A mio avviso, la scena della fiction “Il Capo dei Capi”, un vero e proprio cult di Youtube con quasi 100mila visualizzazioni (sommando i numeri delle diverse clip caricate), in cui Totò Riina e Bernardo Provenzano litigano sulle future prospettive di Cosa nostra, è il tentativo di rappresentare le sue peculiari caratteristiche umane e criminali. Binnu è preoccupato che le stragi provochino la reazione dello Stato, mentre U curtu vuole continuare ad attaccare per ammorbidire la controparte imponendo le richieste del “papello”.
A quel punto Provenzano, per sottolineare l’assurdità delle pretese di Riina, sbotta ironicamente: «Noi corleonesi contro tutto lo Stato!». La risposta è laconica ma significativa: «Qui lo Stato sono io». Gli sceneggiatori mettono in bocca a Riina la celebre frase del Re Sole, Luigi XIV, per rimarcare l’assolutismo dei corleonesi. Quel dialogo non è mai avvenuto, o, se vi è stato, sicuramente non è avvenuto in questi termini. Riina non è tipo da citazioni storiche di alto profilo. Allora perché gli autori caricano di tensione la scena?
Si vuole mostrare che tra Riina e Provenzano comincia ad esserci una divaricazione. Il primo è avvinto dalla sindrome del bunker (si combatte sino alla fine con il nemico alla porte), il secondo sta meditando il suo “25 luglio” per smarcarsi dalla repressione innescata dalle stragi. Nel pathos della scena si condensa quello che lo storico Giuseppe Carlo Marino ha definito il «delirio di potenza di una “nazimafia”».
Ma se Riina è stato una specie di Hitler mafioso, Provenzano a sua volta era una sorta di Göring con le caratteristiche di un Dino Grandi o di un Galeazzo Ciano, pronto a chiedere l’armistizio per garantire una nuova stagione di impunità e prosperità. In sostanza, la scena della fiction serve a spiegare che Provenzano è pronto a disfarsi di Riina consegnandolo ai Carabinieri per dare corso alla fase di inabissamento di cui Matteo Messina Denaro è il più abile prosecutore.
In luogo degli ordini di esecuzione capitale di servitori dello Stato e boss avversari, Binnu si rinchiude in una stalla da dove fa partire pizzini su pizzini impartendo disposizioni con un linguaggio cifrato intriso di metafore religiose. Niente ammazzamenti ma un costante lavoro di penetrazione nella pubblica amministrazione e negli affari più succulenti attraverso una sapiente regia occulta che maschera la minaccia mafiosa dietro una meno appariscente opera di corruzione. Tornano in auge, così, gli uomini della zona grigia: liberi professionisti, politici, amministratori locali, funzionari pubblici, imprenditori collusi, ovvero il ceto medio della borghesia mafiosa, che sfrutta la capacità intimidatoria e i capitali da riciclare di Cosa nostra come una leva economica monopolistica.
Quando lo hanno arrestato, Provenzano sembrava un pastore qualsiasi dell’entroterra siciliano. Eppure quello era, come si racconta in un documentario del 2006, “Il fantasma di Corleone”, il boss che era sfuggito alla Giustizia per ben 43 anni e che aveva riorganizzato i clan attuando una manovra carsica.
Da quel momento in poi la storia di Binnu è la tipica storia di un detenuto al 41 bis. Nei vari processi a suo carico si becca 20 ergastoli, uno dietro l’altro, per essere stato l’esecutore e il mandate dei numerosi delitti, più o meno eccellenti, che hanno caratterizzato la prima e la seconda guerra di mafia. A partire dall’autunno del 2011, però, comincia un processo degenerativo fisico e mentale che avrà il suo culmine con il tentato suicidio del maggio 2012. In quella occasione lo psichiatra forense Corrado De Rosa, esperto di camorristi e mafiosi simulatori di pazzia, aveva espresso più di un dubbio sulla reale volontà suicidaria di Provenzano. Si trattava, a suo dire, di un modo per sospendere i processi in cui era coinvolto, sfruttando la carta della demenza senile.
In verità, negli ultimi due anni ha vissuto in uno stato comatoso vegetale, ma è probabile che la degenerazione sia subentrata con l’avanzare della patologia tumorale. Tuttavia, il suo evidente decadimento cognitivo molto ha fatto discutere sulla permanenza al 41 bis. Basta dare uno sguardo all’hashtag #Provenzano su Twitter e Facebook per rendersi conto quanto l’argomento sia assurto a tema di dibattito pubblico virtuale con posizioni contrastanti. Qui di seguito due screenshot a mo' di esempio:
L’avvocato difensore, Rosalba Di Gregorio, ha chiesto più volte, senza successo, la revoca del carcere duro e la sospensione dell’esecuzione della pena, proprio in virtù delle sue condizioni di salute. Il giudice Domenico (Nico) Gozzo ha affidato al social di Menlo Park la sua riflessione in cui parla di «sconfitta dello Stato»:
Sul suo blog Nando Dalla Chiesa ha scritto: «Bernardo Provenzano è morto. Non riesco a provare nulla. Ho sempre pensato ai mandanti dei delitti che hanno insanguinato Palermo e che hanno straziato la vita di centinaia di persone, molte volte innocenti, come a persone senza sguardo, anche se con lo sguardo potevano decidere un assassinio. Addirittura a persone senza volto, anche se i loro volti erano ansiosamente cercati e simulati (i famosi identikit) dagli investigatori migliori. Ho pensato a loro come fantasmi, anche se erano realissimi, piantati con prepotenza e ferocia nelle nostre vite e decisi a entrarci e a comandarle sempre di più».
«Li ho pensati avvolti in affetti immaginari, virtuali, anche se dotati di una loro indubbia carnalità: perché chi uccide e spezza esistenze e fa sciogliere nell’acido non può avere un figlio “vero”, non può fare l’amore “veramente”, non può provare le tenerezze che valgono la vita. Erano latitanti per lo Stato, certo. Ma io ho pensato a loro come a latitanti dalla condizione umana. Per questo quando il 10 febbraio del 1986 entrai nell’aula bunker del maxiprocesso di Palermo e scrutai le gabbie in cui Provenzano non c’era, ma che erano ugualmente zeppe di killer e macellai, non provai nulla, stupendomene come per incanto, perché mai lo avrei detto. Giustizia sì, capii quella volta; ma nessuna vendetta, nessun perdono, materia che richiede l’esistenza di qualcuno. Per questo anche oggi non provo nulla. Assolutamente nulla».
Su Instagram, invece, la faccia del boss è alternata a vignette e infografiche di carattere satirico o dileggiante connaturale al formato di glamour magazine del social in questione. Scompaiono del tutto i riferimenti al 41 bis e le meditazioni pietose sullo stato vegetativo del boss.
Insomma, la morte di Provenzano ha, come era facilmente intuibile, scatenato il web in una ricorsa di post, tweet, articoli, immagini e video in cui, all’interno di una divisione manichea tra umanitaristi e cinici, prevale l’interpretazione personale. Nessuno, tra i tanti commentatori virtuali, ha ricordato che Binnu, nella notte del 18 settembre 1963, fu l’artefice della conquista del potere della fazione più violenta dei corleonesi eliminando, uno a uno con un colpo in testa, gli uomini del capoclan e medico condotto Michele Navarra, già assassinato cinque anni prima. A nessuno è tornata in mente la data del 10 dicembre 1969, quando fece irruzione nella palazzina di viale Lazio per eliminare Michele Cavataio e i suoi uomini, ritenuti responsabili della prima guerra di mafia.
Se dal punto di vista sentimentale, religioso e persino giuridico gli umanitaristi hanno ragione, dal punto di vista della storia nazionale i cinici non possono perdonare a U Tratturi di essere stato feroce come un diavolo, sadico come un boia, selvaggio come una bestia e di essersi messo al servizio di apparati deviati per attentare le libertà costituzionali. Un dato è certo: con la morte di Bernardo Provenzano molte vicende occulte del Novecento italiano sono state sepolte per sempre.