La morte del bandito Giuliano: 65 anni fa la prima trattativa repubblicana Stato-mafia
La telecamera riprende dall’alto un cortile polveroso e assolato. Lungo il muro dello spazio aperto sono seduti quindici uomini che fissano un corpo privo di vita come un Pinocchio disarticolato. Ha un pantalone di cotone e una canottiera bianca sporca di sangue. Una macchia che si estende sino alla cintura dei pantaloni. Il braccio destro è steso nel vano tentativo di agguantare il mitragliatore caduto a pochi centimetri di distanza dalla mano serrata. Vicino al capo una pistola modello Beretta. Il petto è schiacciato in una pozza fangosa formatasi con il sangue versato.
Un uomo calvo, in bretelle e senza giacca, si avvicina al tavolo piazzato nell’unico angolo ombroso del cortile. Inforca gli occhiali, prende un foglio e legge con voce stentorea: «L’anno 1950, il giorno cinque del mese di luglio, in Castelvestrano, in via Fra’ Serafino Mannone, cortile De Maria, esiste un cadavere di sesso maschile dall’apparente età di anni trenta che giace in posizione prona con la gamba sinistra distesa e la destra leggermente piegata in modo a formare quasi un angolo retto. Il braccio destro è disteso con pugno chiuso, mentre il sinistro è piegato sotto il torace. Il viso appoggia a terra sulla guancia sinistra».
La telecamera nel frattempo è scesa in mezzo al cortile e riprende la scena ad altezza uomo. Poi si avvicina e comincia filmare alcuni dettagli del cadavere. Il verbalizzatore, continuando, dice: «Indossa i seguenti indumenti: una canottiera di cotone bianco; cintura di cuoio marrone, con placca d’oro e fondina di pistola; un paio di pantaloni lunghi di tela color cachi; calzini di cotone a righe; sandali di fattura civile con suola di para. Si rinvengono i seguenti oggetti: all’anulare destro un anello di metallo bianco con un unico brillante; nella tasca dei pantaloni un foglio da dieci lire, in corso legale; una fotografia di persona non ancora identificata».
A questo punto l’azione si sposta fuori dal cortile mostrando l’arrivo dei Carabinieri che, scesi dall’auto, entrano nel cortile. Fanno andare via tutti i non addetti ai lavori. La telecamera, intanto, è tornata nella sua pozione iniziale. L’ufficiale dell’Arma si avvicina ad uomo in giacca e cravatta, che indossa un cappello di paglia e porta il bastone, e comincia a parlottare. In sottofondo aumenta il vocio circostante. La macchina da presa asseconda l’udito inquadrando, con una serie di fotogrammi in sequenza, le persone accorse a vedere “il fatto”. Dai balconi, dalle finestre e dai terrazzi sono sbucati decine e decine di uomini e donne che, immobili sotto il sole, osservano in silenzio quel corpo inanimato.
Ora la telecamera si è spostata alle spalle del cortile. L’ufficiale dei Carabinieri si apparta con l’uomo in paglietta e bastone, insieme ad altri due uomini vestiti in abiti civili. Nel frattempo si consente ai reporter di accostarsi al morto per le fotografie di rito e qualche domanda. Accorrono come api al miele. Alcuni scattano fotografie, altri si riversano sul cadavere per cogliere qualche particolare da raccontare. Le penne fremono e i taccuini si scaldano sotto la canicola siciliana.
Così inizia il “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi. L’omicidio del bandito diventa una laconica constatazione del decesso. Il regista napoletano ha il coraggio di portare, per la prima volta, nelle sale cinematografiche un docufilm, frutto di un lungo e complesso lavoro di documentazione dal quale ricava, da attento conoscitore della letteratura meridionalista, un’analisi interpretativa delle vicende accadute. Tuttavia, non manca all’opera il guizzo artistico del cineasta formatosi negli anni del neorealismo: il film è, in parte, anche figlio del clima che si respira sul set, a contatto con gli abitanti di Montelepre e Castelvetrano. A quanti avevano vissuto gli anni dei rastrellamenti militari e la strage di Portella della Ginestra il regista chiede, a pochi anni di distanza, di rivivere quei momenti stabilendo con la popolazione una vera tensione emotiva.
Fino a “Salvatore Giuliano” la mafia era stata inquadrata come fenomeno di costume o di folklore, al massimo come subcultura localistica, un ingrediente saporito per melodrammi ‘esotici' o per variazioni western come “In nome della legge” (1949) di Pietro Germi. In ogni caso era qualcosa che riguardava la Sicilia, terra di frontiera, inospitale, lontana, estranea. Rosi annichilisce lo stereotipo letterario provando a dimostrare che gli eventi siciliani sono il risultato di scellerate scelte nazionali. Il docufilm intreccia la cronaca (il cadavere del bandito) alla Storia (le vicende del separatismo siciliano) congiungendole allo scenario politico contemporaneo. “Salvatore Giuliano, come è stato scritto, ha «la sostanza della Storia e il linguaggio del buon giornalismo». Non è una semplificazione drammaturgica, anzi problematizza il contesto provando a non dare risposte ma a porre degli interrogativi riflessivi.
Rosi sfoggia le sue qualità di narratore mediale riuscendo a non trasformare il bandito in un eroe popolare. Giuliano è “solo” un cadavere ingombrante che serve per andare alla ricerca di un'altra verità. È un’etichetta simbolica, più che il protagonista della storia, usata da forze oscure per giustificare un atto di violenza politica posto alle radici della rinascita repubblicana: «il suo è letteralmente il ‘corpo del reato' e come tale deve essere ‘rimesso in scena' per la pubblica opinione». Le responsabilità dell'intrigo, celato proprio grazie alla morte del bandito, non vengono attribuite a personaggi sinistri e romanzeschi ma a una perversa dinamica di interessi politico-economici che si fa sistema, metodo, regola.
Per comprendere i fatti bisogna tornare indietro agli anni in cui si sviluppa il separatismo siciliano. La strategia di fondo del movimento (in cui confluiscono i nobili-agrari, guidati da Lucio Tasca, i notabili prefascisti, rappresentati da Andrea Finocchiaro Aprile, e la “mafia, impersonata da don Calogero Vizzini) è agitare la minaccia eversiva contro la classe dirigente nazionale per indurla a patteggiare un’intesa favorevole al blocco agrario-mafioso. Il bandito Giuliano, nominato colonnello dell’Evis (Esercito Volontario per l’indipendenza della Sicilia), viene strumentalizzato per fronteggiare l’apparato repressivo dello Stato repubblicano. La mafia lo usa per contrastare l’occupazione delle terre che sta mettendo in discussione il potere dei latifondisti siciliani e il monopolio della produzione del grano.
Allo stesso tempo si offrono segnali inequivocabili di affidabilità allo schieramento atlantico: si avvia una campagna di terrore contro i socialcomunisti uccidendo, in dieci anni (1945-1955), circa cinquanta sindacalisti della Cgil. Nonostante il conflitto sociale, il panorama sta mutando rapidamente. I baroni sono fuori gioco, i latifondisti sono in difficoltà, i gabellotti oppongono resistenza ai contadini, il bandito Giuliano spara a raffica. La mafia, invece, svolge un ruolo di mediazione tra le parti attendendo segnali positivi dagli ambasciatori di Roma. È pronta a ristabilire l’ordine in cambio di un riconoscimento del suo potere.
Mario Scelba appare l’uomo adatto ad affrontare la questione: ministro dell’Interno, siciliano, conosce le persone giuste per stabilire i necessari contatti con le dovute cautele. Ma sulla manovra democristiana si abbatte lo scoglio delle prime elezioni dell’Assemblea regionale. Il 20 aprile 1947 PSI e PCI uniti nel “Blocco del popolo” raggiungono il 30,4%, conquistando 25 seggi. La Dc si ferma al 20,5% con 21 consiglieri eletti. La spinta del movimento contadino è arrivata a Palermo.
La mannaia elettorale cade nel momento più delicato: Alcide De Gasperi, per assecondare le dinamiche insite alla guerra fredda, sta per estromettere le sinistre dal Governo. Lo scontro tra capitalismo e comunismo passa per la Sicilia. La coalizione agrario-mafiosa reagisce violentemente alla vittoria delle sinistre. Il primo maggio 1947 la cricca del bandito Giuliano spara sui lavoratori in festa a Portella delle Ginestre. Il bilancio è di 11 morti e 27 feriti. La Democrazia Cristiana è avvertita: latifondisti e mafia sono schierati con il blocco filoamericano e non sarà consentito ai socialcomunisti di governare la Regione, correndo il rischio di essere esclusi dalla distribuzione delle risorse pubbliche.
Scelba, allora, accelera i tempi. Agevola, prima, la formazione di una maggioranza, a guida democristiana, sostenuta da monarchici e separatisti; procede, poi, alla fagocitazione delle destre per cogliere tre obiettivi immediati: 1) ergere un diga anticomunista; 2) varare la riforma agraria minimizzando l’opposizione dei latifondisti; 3) svuotare elettoralmente i partiti conservatori per assorbire nella Dc notabili agrari e borghesia urbana moderata.
Manca l’ultimo tassello: Salvatore Giuliano. Il caso va inquadrato in un ordine costruito sull’opposizione “mafia buona-banditismo cattivo”. Il ministro dell’Interno agisce scegliendo, dal suo punto di vista, il male minore. Si “sacrifica” il bandito, sull’altare della ragion di Stato, per concedere ai padrini, in funzione anticomunista, una legittimazione politica. Separatisti e conservatori entrano nella Democrazia cristiana con la prospettiva di controllare la ricostruzione: dall’inserimento dei suoi uomini negli enti regionali (delegati alla riforma agraria e allo sviluppo industriale) all’intercettazione dei finanziamenti pubblici concessi dalla neo costituita Cassa del Mezzogiorno. L’intera operazione si svolge sotto il mantello protettivo di Santa Romana Chiesa rappresentata a Palermo dal cardinale Ernesto Ruffini. L’alto prelato dichiara che la mafia non esiste, è una perfida invenzione dei diffamatori della Sicilia.
La pace sociale comporta un terribile effetto collaterale: la strutturale debolezza istituzionale dei partiti. Si consolida un modello a spiccata “integrazione orizzontale”. Le élite politiche provengono da ambiti esterni (la mafia è uno di questi) nei quali detengono una posizione di preminenza o una dote di risorse extrapartitiche, convertibili in risorse personali, che solo successivamente diventano anche organizzative.
La ragion di Stato da un lato evita rotture troppo brusche, riciclando ed integrando una parte cospicua del notabilato prefascista, con le sue collusioni, in un mondo moderno all’insegna della reiterata estromissione delle masse subalterne dai circuiti di potere; dall’altro concorre al mantenimento di un “potere invisibile” di cui la mafia è di certo la fenomenologia più vistosa e drammatica, ma non la forma unica ed esclusiva.
Il mandante dell’omicidio è un soggetto collettivo aggregatosi nel circuito di relazioni e complicità dirette o indirette coincidente con l’area grigia in cui si stabilisce un compromesso tra poteri dello Stato, potenze internazionali anticomuniste e potentati locali criminali innalzatisi al rango di tutori del territorio.