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Cambiamenti climatici

La Marmolada è crollata per il cambiamento climatico: ora abbiamo la certezza, e succederà ancora

Il ghiacciaio della Marmolada è crollato per il cambiamento climatico provocando 11 morti. Qualora ci fossero dubbio ora lo conferma anche uno studio. E se continuiamo a estrarre e bruciare fossili non potrà che accadere di nuovo: ritardare la riconversione energetica però è interesse solo dei profitti di pochi.
A cura di Fabio Deotto
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Ci sono due notizie di questa settimana, passate piuttosto in sordina, che se accostate tratteggiano un quadro frustrante: la prima è la pubblicazione di uno studio che dimostra come il crollo della Marmolada, che lo scorso luglio causò la morte di 11 persone, sia direttamente imputabile alla crisi climatica; la seconda è che il nostro paese, dopo la prevedibile flessione del 2020, a partire dal 2021 è tornato a emettere gas serra a un ritmo incompatibile con le promesse fatte in sede internazionale.

Il fatto che non ci venga automatico unire questi due puntini è il segnale che nonostante le ripetute prove del guaio in cui ci troviamo, la questione climatica ancora non viene considerata e affrontata come un’emergenza. E questo anche per il dilagare di una retorica che da mesi viene attivamente alimentata dai banchi del governo: è la retorica di chi ancora sostiene che la transizione alle rinnovabili debba avvenire con gradualità, lentamente, magari usando il gas fossile come ponte; è la retorica di chi con una mano si asciugherà le lacrime nell’anniversario del disastro mentre con l’altra approva nuove trivellazioni nell’Adriatico; è la retorica, in sostanza, di chi ha interesse a nascondere il nesso tra una tipologia di impresa che ancora viene considerata legittima (l’industria fossile) e una condizione di emergenza sociale, ambientale, sanitaria ed economica ormai innegabile (la crisi climatica).

Una tragedia annunciata e dimenticata

Lo scorso 3 luglio, in una domenica insolitamente calda, un enorme saracco di ghiaccio si è staccato dalla cima della Marmolada provocando una valanga di circa 64milla tonnellate che prima di arrestarsi ha percorso per oltre due chilometri il fianco della montagna. Quel giorno in quota si registravano almeno 10 gradi, e anche i giorni precedenti il termometro si era assestato su valori nettamente superiori a quelli attesi per il periodo estivo. Era più che ragionevole mettere in relazione quel crollo epocale con un caldo epocale, eppure in molti hanno proposto motivazioni alternative: c’era chi parlava di un evento eccezionale non legato al riscaldamento globale, chi si baloccava con fantasie cospirazioniste, chi addirittura arrivava a dare la colpa agli escursionisti.

Ora uno studio condotto da Aldino Bondesan e Roberto Francese, rispettivamente docenti dell’Università di Padova e di Parma, lascia poco spazio alle alternative: “L'analisi dettagliata delle immagini satellitari e aeree stereoscopiche precedenti e successive all'evento ha permesso di ottenere una visione completa del cedimento.” si legge nello studio, pubblicato sulla rivista Geomorphology. “Il distacco è stato in gran parte causato da un cedimento lungo un crepaccio mediano parzialmente riempito da un enorme volume di acqua di fusione indotto da temperature altamente anomale di fine primavera e inizio estate che hanno raggiunto i 10,7 °C al momento dell'evento.

Insomma, le temperature fuori scala in quota, unite alle scarse precipitazioni in un inverno povero di neve, hanno creato le condizioni perché 12mila metri cubi di acqua disciolta si infiltrassero nel crepaccio mediano di Punta Rocca, provocando il distacco del seracco e il suo rapidissimo scivolamento a valle.

Nelle settimane successive si è continuato a parlare di quanto avvenuto, ma via via il collegamento con la crisi climatica si è allentato. A fine luglio, un’ondata di calore senza precedente ha travolto il paese, il crollo di Punta Rocca era già una notizia passata. Così, quando ad agosto un altro pezzo di montagna si è staccato, provocando una seconda frana a Cima Uomo, ben pochi si sono preoccupati ancora una volta di unire i puntini.

Promesse non mantenute

È facile, di fronte a una tragedia come quella della Marmolada, stracciarsi le vesti e gridare vendetta, e infatti nei giorni seguenti al crollo da ogni parte arrivavano appelli all’azione climatica: “Non possiamo permettere che accada di nuovo”, “Questa è la Natura che ci manda un segnale chiaro”, “Non c’è più tempo da perdere”; frasi come queste sono rimbalzate dai telegiornali ai social, per poi posarsi ed essere obliterate da notizie più recenti e facili da gestire.

Siamo abituati al fatto che le promesse vaghe pronunciate a caldo vengano disattese, ma il nostro paese ha fatto anche promesse specifiche, e le ha pronunciate ai tavoli internazionali, impegnandosi  a mettere in atto una serie di misure che, se adottate, consentirebbero effettivamente di ridurre del 45% le emissioni serra rispetto ai valori del 2005.

Stando al National Inventory Report 2023 pubblicato in questi giorni da Ispra, però, emerge che questa riduzione, nella migliore delle ipotesi, non supererà nemmeno la soglia del 30%. Se infatti nel 2020 la quantità di anidride carbonica dispersa nell’aria in Italia era effettivamente diminuita (niente di troppo entusiasmante, ma comunque intorno ai 7 punti percentuali), a partire dal 2021 la curva delle emissioni ha ricominciato a salire, registrando un balzo dell’8,5%.

È una notizia attesa ma preoccupante, se consideriamo che tra il 2013 e il 2020 l’Italia aveva effettivamente rispettato gli obiettivi di riduzioni assegnati, tanto che rispetto agli anni ‘90 si registra un calo del 37% nelle emissioni provenienti dal settore delle industrie energetiche, e questo nonostante un aumento della produzione di energia termoelettrica e dei consumi di energia elettrica.

In sostanza, superato l’intervallo pandemico, non solo abbiamo ricominciato a inquinare come prima, abbiamo iniziato a seguire un trend meno virtuoso, tanto e lo stesso report afferma che “la situazione sembra destinata a proseguire non solo nel 2022, ma anche negli anni futuri. Poco promettenti, infatti, gli scenari al 2030: attesa una scarsa riduzione delle emissioni nei settori trasporti e riscaldamento.

Un mondo migliore è impossibile?

C’è una terza notizia, uscita sempre questa settimana, che è utile aggiungere al quadro che stiamo tracciando. In un nuovo report, intitolato “Energy Security Scenarios”, la multinazionale petrolifera Shell ha presentato due possibili scenari futuri per la situazione climatica globale, che definisce “un’esplorazione di come il mondo potrebbe evolvere a partire da diversi presupposti.”

Il primo scenario, Archipelagos, immagina che di qui ai prossimi anni la necessità di garantire la sicurezza energetica si imporrà sulla volontà di ridurre le emissioni serra; è lo scenario in cui le tendenze attuali rimangono grossomodo inalterato, ed è infatti anche quello meno ambizioso: le emissioni scenderebbero molto gradualmente, senza raggiungere lo 0 entro il 2100, il riscaldamento globale continuerebbe a crescere assestandosi intorno ai 2,2 gradi.

Ma è il secondo scenario, Sky 2050, a riservare le vere sorprese: mentre l’intera comunità scientifica continua a ricordarci che siamo ancora in tempo per mantenere il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5 gradi, nello scenario più “ambizioso” proposto da Shell questa soglia viene tranquillamente superata: le temperature crescerebbero fino alla fine degli anni ‘40, raggiungendo quota 1,7, per poi gradualmente scendere e tornare agli attuali 1,2 gradi entro il 2100.

Ora, a parte che prospettare un simile raffreddamento globale significa dare per scontato che di qui ai prossimi decenni vengano implementati sistemi di sequestro dell’anidride carbonica che oggi sono allo stato embrionale (ed è tutt’altro che sicuro che potranno aiutarci a combattere la crisi climatica in tempi utili), qui Shell sta facendo il vecchio gioco di contrapporre due alternative per nasconderne altre più scomode. E lo sta facendo in maniera piuttosto plateale:

Questo superamento di soglia è un risultato che alcuni considereranno inaccettabile, ma, come suggerisce il nostro modello, qualsiasi discussione su come prevenire un superamento di 1,5°C dovrebbe includere azioni più ampie delle misure già sostanziali previste da Sky 2050, che potrebbero non essere tecnicamente realizzabili.

Il problema è che tecnicamente realizzabili lo sono, manca solo la volontà politica per farlo. E non è una mia opinione, è il verdetto a cui sono arrivate le centinaia di scienziati che negli ultimi sei anni hanno lavorato all’ultimo rapporto dell’IPCC, il documento più affidabile e autorevole sulla questione.

La scelta di indirizzare la politica energetica italiana verso un abbandono “morbido” delle fonti fossili e quella di Shell di presentare come alternativa più rosea uno scenario poco ambizioso come 2050 rispondono all’esigenza di ritardare un’azione climatica che andrebbe a erodere interessi e occasioni di arricchimento ben precise. Sono un tentativo di spacciare la crisi climatica e le sue ricadute come un male necessario, così da impedire alle persone di unire puntini molto vicini tra loro, e derubricare tragedie come quelle della Marmolada come sciagure imprevedibili e inevitabili.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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