La mafia narrata, intervista a Giuseppe Catozzella

Una delle voci più interessanti della nuova letteratura italiana è il giovane scrittore ed editor di Feltrinelli, Giuseppe Catozzella, autore del romanzo, Alveare (Rizzoli, 2011). Catozzella è appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti in cui è stato prima a New York, invitato per l’Anno italiano della cultura negli Stati Uniti, dove al NY Auditorium Theatre, insieme a Robert Pinsky, ha presentato in anteprima il suo nuovo romanzo, Non dirmi che hai paura, in uscita l’8 gennaio con Feltrinelli. Libro che ha già ottenuto un grande successo alla Buchmesse di Francoforte perché è già stato venduto a grandi editori, dopo varie aste, in Germania, Francia, Olanda, Norvegia e Finlandia. Lo scrittore è poi andato a Miami, dove alla UM University ha tenuto alcune lezioni, sulla mafia, appunto. Lo abbiamo incontrato per capire come viene vista la mafia in America e qual è, oggi, il ruolo della letteratura nella lotta alla criminalità organizzata.
Sei appena tornato dagli Stati Uniti, dove hai parlato del rapporto tra scrittura e mafia, cosa pensano oggi gli americani della mafia? Hanno ancora un immagine folcloristica?
La mia impressione è stata quella di trovarmi di fronte a studenti estremamente interessati e curiosissimi. La mafia è uno di quegli argomenti che li interessano da vicino. Eravamo a Miami, appunto, negli anni ’70 e ’80 capitale del narcotraffico statunitense. Si pensi che personaggi come Griselda Blanco o Enrique “Fierro”, grandi narcotrafficanti colombiani, vivevano proprio a Miami. Naturalmente, data anche la giovane età, non avevano una conoscenza dettagliata del fenomeno delle mafie e delle strategie del narcotraffico che alle mafie si lega in maniera così forte. Uno degli aspetti che più li interessava era proprio quello della fuoriuscita delle mafie italiane da una certa immagine “folcloristica”, appunto. I racconti di come, diciamo dagli anni ’90, cosa nostra, camorra e soprattutto ‘ndrangheta abbiano capito che dovevano affrontare un processo di “imborghesimento”, che le portasse a una sorta di invisibilità, in Italia così come all’estero.
Il tema è al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica?
Direi che la mia impressione è stata che il tema non è di certo al centro dell’opinione pubblica, anche se Barack Obama ha dichiarato, sulla scorta della DEA, che il narcotraffico è il problema numero 1 per gli Stati Uniti, ancora più del terrorismo. E di conseguenza le mafie (e i cartelli della droga, messicani e colombiani) lo sono.
Chi sono gli scrittori italiani di mafia tradotti in America?
Questa risposta non può non tenere conto delle difficoltà generali che l’editoria italiana incontra nel cercare di proporsi oltreoceano. Molto semplicemente, le case editrici americane (o anche quelle inglesi, per dire) non traducono molti italiani. Anzi, è vero il contrario. Di sicuro hanno tradotto Saviano, poi mi viene in mente il caso di Gratteri e Nicaso. Ma non credo ce ne siano molti altri. Ma, ripeto: questo va inquadrato nella fatica che fanno gli editori italiani a proporsi a case editrici che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno neppure lettori di lingua italiana, dimostrando quindi una preclusione quasi di principio.
Non credi che “Gomorra”, abbia creato e inflazionato il mercato dell’industria culturale sul tema delle mafie?
“Gomorra” è stato un unicum non soltanto per quanto riguarda i libri sulla mafia, ma sui libri tout court. È in assoluto il più grande successo editoriale italiano degli ultimi dieci anni, e forse più. È normale che un così enorme successo abbia in certo modo “bruciato” tutta la letteratura sull’argomento. Ha contemporaneamente creato e in certo senso saturato l’attenzione sull’argomento. Successi così sono davvero rarissimi.
Lo scrittore che vuole continuare a scrivere di questi argomenti, in Italia, secondo te quale tipo di strategia narrativa deve adottare? Ci sono ancora aspetti inesplorati?
Questa è una domanda molto difficile. Non lo so. Non so neanche se è giusto chiedersi quale strategia si debba adottare. Di solito le strategie non portano a molto, in questo settore. Il lettore si accorge delle più minime vibrazioni, figuriamoci delle strategie. Il rapporto tra autore e lettore, che passa attraverso la pagina stampata, è quello di una intensissima intimità. Non si può mentire o costruire a tavolino. Io credo che lo scrittore che vuole scrivere di mafia lo debba fare nel modo che più sente suo e che più gli viene spontaneo. Solo così potrà fare breccia nel cuore e nella mente del lettore. Aspetti inesplorati sembra non ce ne siano, ma di nuovo è forse il modo (la voce dello scrittore, lo stile, diciamo, “la penna”) a fare la differenza.
Spesso davanti all’incredibile pervasività della criminalità organizzata ci si blocca perché non si sa come contrastarla, anche perché la rassegnazione e la sfiducia nelle istituzioni è enorme. Qual è oggi il ruolo della letteratura su questo tema?
Io credo che il ruolo della letteratura sia sempre lo stesso: trasmettere bellezza attraverso storie, o storie attraverso la bellezza. Tutto questo è già di per sé da un lato normalissimo e dall’altro rivoluzionario, e comunque in certo senso opposto alle logiche di cui si nutre la mafia. Quando avviene il “miracolo” attraverso un libro che si ama, ovvero quando accade che delle pagine stampate ci facciano sognare, sperare, credere nella bellezza del mondo e del futuro e ci facciano riprogettare il nostro proprio futuro, io credo che già si stia facendo qualcosa per opporsi alla mafia che, ricordiamolo, innanzitutto è bruttezza, sopraffazione, violenza, arroganza, ingiustizia. Se poi si riesce a creare bellezza parlando esplicitamente di mafia, allora il risultato è esponenziale.
Con il libro Alveare, hai raccontato lo strapotere della ndrangheta al nord, che tra l’altro continua ad ammazzare, nel nuovo libro che hai presentato, in anteprima, in America cosa ci racconterai?
“Alveare” tra l’altro ri-uscirà a gennaio 2014 nell’Universale Economica di Feltrinelli. Il nuovo libro invece, sempre per Feltrinelli e sempre a gennaio, si chiama “Non dirmi che hai paura”. Nel romanzo racconto la storia vera e incredibile di Samia Yusuf Omar, nata e cresciuta nel 1991 in un sobborgo poverissimo di una Mogadiscio piagata dalla guerra civile, con un grande talento: è velocissima. Samia arriverà senza allenatore e quasi senza scarpe alle Olimpiadi di Pechino del 2008 e ha il sogno di vincere quelle di Londra 2012, ma sa che per farcela deve trovare un allenatore professionista. Una notte parte a piedi da Mogadiscio con il sogno di raggiungere l’Italia e di fare come Mo Farah, un suo conterraneo che è approdato in Inghilterra, ha trovato un coach e ha cominciato a vincere forte (e tra l’altro Mo Farah a Londra 2012 vince i 5000 e i 10000 metri). È una incredibile storia di libertà e su cosa un essere umano è in grado di fare per realizzare i propri sogni.