E' notizia di qualche giorno fa l'esplosione di alcuni proiettili verso le vetrate di San Paolo Maggiore.
Non si tratta di un attacco alla Chiesa né ad un parroco scomodo ma di un gioco. Un semplice gioco nel quale amano cimentarsi i ragazzi del quartiere. Qualche tempo prima la stessa chiesa aveva visto distrutti i capitelli delle colonne corinzie che sporgono dalla facciata. E qualche tempo prima ancora un petardo ne aveva fatto saltare la porta d'ingresso.
Per i lettori non napoletani è bene precisare che San Paolo Maggiore è una chiesa immersa nel centro antico della capoluogo campano. Accoglie i turisiti che risalgono i pastori di San Gregorio Armeno e lascia scendere i visitatori nel ventre di Partenope – accanto v'è l'accesso a Napoli Sotterranea -. Ma San Paolo Maggiore non è semplicemente un luogo di culto colmo di capolavori. San Paolo Maggiore è Napoli stessa. Perché era il Tempio dei Dioscuri eretto contemporaneo alla fondazione della città e poi converito alle celebrazioni cattoliche pur conservando inalterata la facciata da cui sporgono, ancora oggi, le colonne corinzie che neanche il terribile terremoto del 1688 è riuscito ad abbattare. Quelle colonne sono lì immobili da duemila e cinquecento anni. Guardano la città scorrere ai loro piedi con quel pizzico di superiorità che solo un fregio corinzio può avere.
Per me San Paolo Maggiore è la minuscola piazza che l'accoglie, il palazzo rosso antistante, il lungo balcone del primo piano, le sue ringhiere verdi e il verso di una canzone: "se nascesse adesso in Russia o strillando da un balcone fra le commedie di Eduardo i passi di un ubriacone…". In quella piazza, da duemila e cinquecento anni scorre la città, scorrono i suoi suoni, scorrono gli odori, scorrono i napoletani cha, a volte, alzano gli occhi al cielo e si ricordano della propria storia.
In quella stessa piazza, ogni giorno, muore l'Italia.
Muore sulle note di un piano suonato da Bollani che fa più o meno così: "La grandezza di questo paese non è più nelle piazze, non è nelle chiese. Non è Roma di marmi, fontane e potere. Né Milano tradita da chi se la beve. Non è Genova o Taranto, signore del mare. Non è Napoli e questo è persino più grave".
L'Italia ha fatto un passo avanti e uno indietro. Ha unito le logiche fasciste della sopraffazione allo sfruttamento capitalista. Ha deciso che "io, so io e voi non sete un cazzo" e ha poi ha puntato la pistola verso le colonne dei Dioscuri.
Perché "io so io" l'ha detto pure quel gruppo di "magliari" che saliti sabato alla stazione di Salerno erano incapacitati ad aspettare i 40 minuti per fumarsi una sigaretta senza arrecare disturbo agli altri. Gli occhi del turista giapponese costretto a cambiare carrozza poiché immersa di fumo sono la sconfitta culturale della nostra nazione. Di quelle otto persone rispetto la complessità di una giornata di lavoro passata per le strade di una città a vendere calzini, rispetto il freddo che entra nelle ossa, rispetto "la fatica" e rispetto anche la necessità di potersi accendere – infine – una sigaretta. Ma solo se il loro bisogno "particolare" non prevarica quello della collettività. Solo se il bisogno "particolare" non diventa un'imposizione fascista nei confronti degli altri.
Chi fuma su un treno infischiandosene degli altri è come colui che occupa un bene. Perché l'occupazione è sempre fascista. L'occupazione è il mezzo per il quale io – perché più forte – prendo possesso di un bene. In quel momento, con quel gesto, decido – da solo – che la mia condizione è peggiore a quella di tutti quanti gli altri. Non importa se c'è qualcuno che sta peggio di me, io ho deciso a mio insidacabile parere che quella cosa mi appartiente. "E' mia". L'occupazione – anche se derivante da lentezze amministrative – è semplicemente l'uso della forza rispetto ad una mancanza da parte dello stato. Ma l'uso della forza è fascista, sempre. E' un "me ne frego" gridato in faccia a quanti aspettano pazienti il proprio turno. E' un "me ne frego" sbattuto in faccia a chi pazientemente cerca di stabilire un insieme di regole condivise. E' un "me ne frego" sbattuto in faccia alla collettività. E' su queste scelte che muore l'Italia.
Un paese che non fa squadra e ammira colui che prende il pallone, un paese che segue l'uomo che ha preso il pallone. Un paese che vota l'uomo che ha preso il pallone perché spera che, in fondo, per un attimo, anche uno solo, ce lo lasci anche un po' a noi, per farci giocare. E probabilemente, un po', ci lascerà anche giocare, ma alle sue regole, perché il pallone è suo e siamo noi ad averlo seguito.
Così, lentamente, passiamo da un uomo forte ad un altro. Da un dittatore ad un leader ma intanto, in quanto collettività, non avanziamo. E la colpa non è dei politici, non è dei giudici, non è della polizia, non è dei preti né dei professori. La colpa è nostra che abbiamo fatto sedimentare quel germe fascista dentro di noi e abbiamo anche pensato trattarsi di vera "disobbedienza". Abbiamo alimentato il fascismo e l'abbiamo mischiato al consumismo sicuri che questo ci avrebbe condotti alla felicità. E invece quel che resta di questo paese è un insieme di campanili "deculturato" che oscilla come bandiere al vento di mare.
La colpa è nostra, di un paese adolescente che non vuole diventare adulto perché in fondo è difficile, richiede sforzo, abbandono delle proprie certezze e assunzione di responsabilità. E' molto più facile restare bambini, poiché ci sarà sempre qualcuno verso cui puntare il dito e dire "è colpa sua" sia esso la camorra, il governo, il sindaco o il proprio capo. Più difficile è sedersi e decidere la strada da fare, pianificare, costruire, alzare il proprio sguardo verso un orizzonte. Abbandonare le nostre necessità consumistiche immanenti e diventare un paese adulto. Coscienti che non ci saranno mentori a indicarci la via perché come scriveva un professore "si diventa grandi sulla propria pelle sulle proprie palle e su poche stelle".