È stata l’estate delle ondate di caldo, della siccità record e delle alluvioni disastrose, ed è stata anche l’estate dei fulmini. Nelle ultime settimane le pagine della cronaca si sono riempite di morti e incendi legati ad un incremento dell’attività temporalesca, e stando ai dati raccolti dallo European Severe Weather Database, dall’inizio dell’anno sono caduti 53 fulmini pericolosi, ossia l’83% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Purtroppo, tuttavia, in quelle stesse pagine di cronaca, questi casi vengono spesso etichettati come eventi eccezionali legati al maltempo, mentre anche questa volta la crisi climatica ha la sua dose di responsabilità. Abbiamo detto più volte che il riscaldamento globale non tende a creare nuove problematiche, bensì a moltiplicare minacce esistenti. A quanto pare, una delle ricadute della crisi globale sarà un aumento netto nell’insorgenza di fulmini violenti.
Come si formano i fulmini
Un fulmine è una scarica elettrica di grande intensità scatenata dalla differenza di potenziale tra le particelle a carica negativa presenti in una formazione nuvolosa e quelle a carica positive presenti in un’altra nuvola o, più comunemente, a terra. Non è ancora del tutto chiaro come questa carica elettrica venga generata, ma la teoria più accreditata è che dipenda dalle collisioni tra grandine e particelle di ghiaccio più piccole all’interno di un cumulonembo. Durante un temporale una corrente ascensionale all’interno delle nuvole porta alcune gocce d’acqua a salire verso l’alto, a raffreddarsi e a trasformarsi in grandine; alcuni di questi chicchi di grandine diventano troppo pesanti per essere sostenuti dalla corrente ascensionale, quindi ricadono verso il basso e così facendo entrano in collisione con particelle di ghiaccio più piccole caricandosi negativamente. In questo modo si forma un addensamento di particelle a carica negativa alla base della nuvola e uno di particelle a carica positiva alla sommità: in pratica la nuvola si trasforma in una specie di batteria e produce così un campo elettrico. Questo accumulo di carica negativa alla base della nuvola può indurre una polarizzazione positiva degli oggetti al suolo. A questo punto si formano delle prime scariche pilota, chiamate “leader”, delle correnti di elettroni liberi che procedono a gradini; quando, ramificandosi, queste scariche si avvicinano al terreno, inducono la formazione di scariche dal basso verso l’alto, che incontrandosi con le leader vanno a generare il fulmine visibile, un canale luminoso intensissimo che può avere un diametro di 3 centimetri e raggiungere temperature di 20.000 (a volte anche 30000) gradi centigradi, praticamente 4 volte la temperatura registrata sulla superficie solare. L’onda di pressione generata dall’aria riscaldata dal fulmine produce il boato che chiamiamo tuono.
Più caldo, più temporali, più fulmini
Nel 2019 il servizio meteorologico dello stato dell’Alaska rilevò un evento meteorologico senza precedenti: per la prima volta un fulmine aveva colpito una zona compresa entro un raggio di 500 km dal Polo Nord. Fino ad oggi, la quantità di fulmini registrati all’interno del circolo polare artico è stata molto bassa, abbastanza da considerare una simile attività meteorologica più unica che rara. Ma stando a uno studio pubblicato su Nature Climate Change nel 2021, da Yang Chen e altri ricercatori della University of California di Irvine, di qui alla fine del secolo la quantità di fulmini in zona artica è destinata a raddoppiare.
Questa dinamica non interessa solo l’Artico, anche nel resto del mondo l’incidenza dei fulmini violenti sta aumentando, e alcuni studi calcolano che aumenterà di circa il 12% per ogni grado centigrado di riscaldamento globale. Si stima infatti che, poiché l’aumento delle temperature porta a una maggiore evaporazione e quindi a una maggiore umidità atmosferica, questo andrà a incidere sui valori di energia potenziale convettiva disponibile (CAPE), aumentando questi valori aumenterà la velocità verticale massima potenziale all'interno di una corrente ascensionale. In parole povere: aumenterà il carburante di cui i fulmini si nutrono.
Perché l’aumento dei fulmini è un problema
Ogni anno in tutto il mondo si registrano circa 3 miliardi di fulmini, ossia 3 miliardi di scariche da centinaia milioni di volt che, com’è prevedibile, provocano danni di ogni tipo. A partire dalle 10.000 persone in media che ogni dodici mesi muoiono colpite da un fulmine, 2500 delle quali soltanto in India, dove la stagione monsonica comporta temporali violentissimi. La cosa interessante è che le persone colpite ogni anno da un fulmine sono circa 10 volte di più, il che significa che almeno il 90% di chi viene folgorato riesce a sopravvivere. Questo perché nella maggior parte dei casi l’impatto non è diretto: molte vittime si trovano in prossimità di alberi o di altri punti di innesco, e la scarica che li attraversa è talmente rapida (pochi microsecondi) e talmente superficiale che in molti casi non provoca danni letali.
Ma i fulmini non colpiscono solamente le persone. Si è calcolato che all’incirca un quarto degli incendi boschivi a livello globale sia causata da fulmini, il che è problematico se si considera che il numero di fulmini violenti è destinato ad aumentare e che, in media, gli incendi innescati da fulmini sono più estesi e difficili da controllare di quelli di origine dolosa. L’aumento di fulmini in zona Artica, a cui abbiamo accennato sopra, è particolarmente preoccupante: secondo la ricerca pubblicata da Cheng, “questo aumento potrebbe generare un effetto feedback in cui gli incendi della tundra artica velocizzano la migrazione a nord degli alberi boreali, il che porterebbe a una contestuale accelerazione del rilascio di carbone dal permafrost.”
In poche parole: un maggior numero di fulmini si traduce in un maggior numero di incendi, che a sua volta si traduce in una maggiore quantità di gas serra rilasciati nell’atmosfera, andando ad alimentare l’ennesimo circolo vizioso della crisi climatica.
Ancora una volta: è fondamentale decarbonizzare l’economia e ripulire l’aria delle città
Abbiamo detto che la quantità di fulmini negli ultimi anni è nettamente aumentata. In realtà, però, c’è stato un periodo in cui questa curva crescente ha registrato una significativa flessione: nel 2020 il numero di fulmini è calato del 7,6%, con i valori più bassi registrati nei periodi di lockdown. Alcuni ricercatori del MIT hanno analizzato il fenomeno e sono giunti alla conclusione che la riduzione nel numero di fulmini durante la pandemia è da imputarsi al drastico calo di particelle inquinanti nell’aria. La tesi proposta da Yakun Liu e colleghi è che le particelle microscopiche in sospensione nell’atmosfera favoriscano la formazione di droplet più grandi che poi si trasformano in quei cristalli di ghiaccio protagonisti degli accumuli di carica elettrica che abbiamo visto a inizio pezzo.
A suffragare questa idea c’è anche l’analisi dell’aumento nell’incidenza di fulmini registrato in concomitanza con le eruzioni vulcaniche e le rotte navali più trafficate. In un altro studio, Liu aveva osservato come, in occasione degli incendi che hanno flagellato il continente australiano nella cosiddetta Black Summer tra il 2019 e il 2020, l’incidenza dei fulmini fosse aumentata del 270%. “Le emissioni inquinanti non stanno soltanto deteriorando la qualità dell’aria” conclude Liu “ma potrebbero anche influenzare i processi elettrici e risultare in un numero maggiore di fulmini.”
Liu è uno scienziato accorto, infatti utilizza il condizionale, ma incrociando le sue ricerche con quelle di Cheng il trend appare coerente: l’aumento delle temperature globali e l’aumento della concentrazione di particolato atmosferico concorrono a favorire i processi alla base dell’insorgenza di temporali e fulmini violenti. Un altro degli innumerevoli problemi che andremmo ad arginare se ci decidessimo ad affrontare la crisi climatica per l’emergenza trasversale che è.