La crisi climatica è la più grande minaccia esistenziale che l’essere umano si sia mai trovato ad affrontare. È una frase che ho ripetuto e sentito ripetere più volte, in questi mesi, ed è una frase vera, purtroppo, però rischia di essere anche fuorviante. Perché se è vero che la crisi climatica è una minaccia esistenziale, è anche vero che il termine “minaccia” fa automaticamente pensare a qualcosa che ancora deve concretizzarsi, mentre la crisi climatica è già qui, sta già stravolgendo la vita in molte zone del mondo, e sta anche mietendo centinaia di migliaia di vittime.
La Storia umana è costellata di eventi catastrofici, e spesso tendiamo a misurarne la portata in termini di morti causate: sappiamo ad esempio che l’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia nel 1815, ha causato 250.000 vittime, che i caduti della Seconda Guerra Mondiale, tra soldati e civili, sono circa 70 milioni e che il Covid per ora è stato responsabile di 6 milioni di morti. Nel caso della crisi climatica il calcolo è molto più complesso, e questo, principalmente, perché la crisi climatica è un “moltiplicatore di rischio”: più che creare nuovi problemi va a esacerbarne di già esistenti. Questo significa che è difficile individuare con precisione gli effetti letali che le ricadute del riscaldamento globale hanno già prodotto.
Ma c’è chi comunque ci sta provando. In Gran Bretagna, ad esempio, l’Office for National Statistics ha cominciato, a partire da quest’anno, a monitorare il numero di morti e ospedalizzazioni imputabili a fattori climatici in Inghilterra e in Galles. Un’iniziativa importante, ma poco rappresentativa, dato che parliamo di nazioni con un clima mite, mentre il peso maggiore in questo momento lo stanno subendo le regioni più calde del pianeta.
Si muore di caldo, e non è più un modo di dire
Mentre scrivo, in alcuni regioni dell’India è stata lanciata un’allerta per un’ondata di calore che sta interessando le regioni del Rajasthan e del Vidarbha: le persone vengono esplicitamente invitate a non uscire di casa e a tenersi lontano da zone di accumulo di calore, per evitare di esporsi a condizioni letali. Le ondate di calore non sono una novità in India, ma di solito si verificano tra maggio e giugno, mentre quest’anno le allerte hanno cominciato a fioccare a fine marzo, con picchi di temperatura che hanno sfiorato i 45 gradi.
In India, quello del 2022 è stato ufficialmente il marzo più caldo degli ultimi 122 anni. E di qui ai prossimi mesi, in molte regioni del mondo si registreranno nuovi record, come del resto è successo la scorsa estate. Nel luglio del 2021 una cupola di calore senza precedenti è calata sul Canada occidentale e l’ha bollito senza tregua per quasi una settimana. Il 2 luglio, il medico legale capo della British Columbia ha annunciato che nel giro di una settimana si erano registrate 719 “morti improvvise e inattese”, praticamente il triplo rispetto alla media del periodo.
L’ondata di calore canadese ha fatto notizia per via delle temperature mai viste, che in alcuni casi hanno superato di 2 gradi i record precedenti, e perché la cupola di calore è rimasta ferma così a lungo che un villaggio ha letteralmente preso fuoco. Ma sono anni che in vari punti del mondo questi fenomeni stanno diventando la norma. Pensiamo appunto all’India, dove da alcuni anni i termometri delle città più popolose superano costantemente la linea dei 45 gradi, condannando a morte centinaia di persone; o al Pakistan, dove lo scorso anno, a Jacobabad, è stata superata la soglia tollerabile della temperatura di bulbo umido, una misura che combina calore e umidità, arrivando al punto da rendere impossibile a una persona raffreddare la temperatura corporea attraverso la sudorazione; o anche solo all’Australia, dove ormai le morti da ondate di calore superano quelle legate a tutti gli altri eventi naturali messi insieme.
Una ricerca condotta di recente dalle università di Shandong in Cina e di Monash in Australia, ha stimato che almeno il 10% dei decessi globali può essere attribuito a temperature estreme, questo significa che l’esposizione a un clima troppo caldo o troppo freddo provoca ogni anno la morte di 5 milioni di persone. La maggior parte di questi decessi sono imputabili al freddo, è vero, ma il trend sta cambiando, e la proporzione di persone morte in seguito a ondate di calore sta aumentando. Uno studio congiunto pubblicato nel giugno del 2021 su Nature Climate Change ha calcolato che il 37% delle morti da caldo negli ultimi 30 anni può essere attribuito al cambiamento climatico. Questo significa che dagli anni ‘90 ad oggi il riscaldamento globale ha già provocato milioni di morti.
Ci sono sempre più eventi estremi, ma non siamo pronti a gestirli
L’abbiamo detto, la crisi climatica è un moltiplicatore di rischi, e le ondate di calore naturalmente non sono l’unica problematica in gioco. L’aumento delle temperature ha già modificato i pattern di precipitazione a livello globale, inoltre incide sulle correnti oceaniche e quelle atmosferiche, andando a rendere sempre più probabili (sebbene sempre meno prevedibili) eventi estremi come inondazioni, incendi, uragani e siccità.
Nel settembre del 2021, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha pubblicato un rapporto che prende in esame la mortalità legata agli fenomeni climatici degli ultimi 50 anni: a fronte di 11.000 eventi estremi si contano almeno 2 milioni di decessi, la maggior parte dei quali è imputabile a episodi di siccità (650.000) e a uragani (570.000).
Ora, dal rapporto emergono sia buone che cattive notizie. Una buona notizia, ad esempio, è che, nonostante la frequenza di eventi estremi sia aumentata, il numero di decessi è oggi tre volte inferiore rispetto agli anni ‘80, questo grazie a nuovi sistemi di allerta e di adattamento, che consentono di gestire in modo più sicuro gli eventi catastrofici. Una cattiva notizia è che questi eventi sono destinati ad aumentare significativamente e a diventare sempre meno prevedibili. Un’altra cattiva notizia è che il 90% dei fenomeni meteorologici letali si concentra nei paesi più poveri, molti dei quali non dispongono di sistemi di allerta precoce: in assenza di un progetto di cooperazione internazionale efficace saranno sempre più esposti alle ricadute della crisi climatica.
Un mondo più caldo è un mondo meno sano
Finora abbiamo visto come le ricadute della crisi climatica si rivelino già oggi letali, e ci siamo concentrati su eventi circoscrivibili. Ma l’aumento delle temperature globali, come sappiamo, non provoca soltanto ondate di calore, uragani e inondazioni, ha ricadute su ogni distretto della nostra esistenza, alcune delle quali sono più difficili da misurare.
Lo scorso ottobre, l’Organizzazione mondiale della sanità ha ribadito che la crisi climatica rappresenta la peggiore minaccia sanitaria nella storia dell’umanità: “Il cambiamento climatico” si legge nel rapporto “incide sui fattori sociali e ambientali cruciali per la salute, come l’aria pulita, l’acqua potabile, la sicurezza alimentare e la possibilità di disporre di un riparo". Il riscaldamento globale negli ultimi anni ha innescato un aumento nella frequenza di malattie respiratorie e cardiovascolari, nella diffusione di malattie infettive e altre patologie legate all’acqua, per non parlare dell’incidenza sui disturbi psicologici. Se la crisi climatica non viene affrontata immediatamente, l’OMS prevede che tra il 2030 e il 2050 si conteranno all’incirca 250.000 morti aggiuntive ogni anno legate a diarrea, malnutrizione e patologie legate agli stress termici.
Questo senza contare gli effetti che il cambiamento climatico potrebbe avere sulla diffusione di virus e batteri. Poiché molti vettori animali responsabili della diffusione di patogeni, come ad esempio le zanzare, sono ectodermi, ossia hanno una temperatura corporea che dipende da quella esterna, si teme che un aumento globale delle temperature promuoverà la sopravvivenza e la riproduzione di questi vettori, nonché in alcuni casi il tasso di replicazione degli stessi patogeni che ospitano.
70 milioni di morti che possiamo evitare
In un articolo intitolato The Mortality Cost of Carbon, Raymond Daniel Bressler ha fatto una stima del numero di decessi aggiuntivi che la crisi climatica potrebbe comportare, di qui al 2100: in uno scenario in cui non si avviasse un serio piano di mitigazione, le morti in eccesso ammonterebbero a circa 83 milioni, una cifra che potrebbe essere ridotta a 9, se riuscissimo a implementare misure di adattamento e mitigazione efficaci, e a raggiungere una decarbonizzazione trasversale entro il 2050. Questo significa che la crisi climatica è al 6 posto tra i fattori di rischio globali, poco sopra l’inquinamento atmosferico e appena sotto l’obesità.
Per scongiurare uno scenario simile è fondamentale innanzitutto ridurre al minimo le emissioni e fare di tutto per mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia degli 1,5 gradi. Ma non sarà sufficiente. Anche nell’ipotesi in cui opereremo una transizione ecologica seria, i gas serra che già abbiamo emesso nell’atmosfera continueranno a riscaldare il pianeta oltre gli 1,2 gradi attuali. Questo significa che alcune delle ricadute previste si concretizzeranno in ogni caso.
È dunque fondamentale predisporre delle misure di adattamento e dei sistemi di allerta precoce che consentano alle nazioni più vulnerabili di minimizzare i danni sulla popolazione. Per fare ciò, è inutile girarci intorno, servono investimenti corposi. Alla COP26 i paesi meno industrializzati hanno calcolato che sarebbero necessari 1000 miliardi di euro, poco più dell’1% del PIL mondiale.
Lo scorso 23 marzo, in occasione della Giornata mondiale della meteorologia, il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha incaricato l’Organizzazione meteorologica mondiale di preparare un piano per far sì che di qui ai prossimi cinque anni tutte le nazioni del pianeta dispongano di sistemi di allerta meteo precoci. Il piano verrà presentato il prossimo novembre alla COP27 di Sharm el-Sheik. La speranza è che questa volta, a fronte di una crisi climatica sempre più letale, alle parole e alle promesse seguano impegni concreti.