“La comunità Shalom va chiusa”, l’opinione di psichiatri, tossicologi ed esperti di comunità
Secondo gli esperti del settore, il metodo applicato nella comunità terapeutica Shalom in provincia di Brescia sarebbe "fuori dalla modernità, dall’attualità, assolutamente ingiustificabile dal punto di vista professionale, operativo, e del tutto inefficace”. È questa l'opinione generale di chi nelle comunità ci lavora da decenni dopo la visione dell’inchiesta del team investigativo Backstair di Fanpage.it che ha mostrato le testimonianze di numerosi ex ospiti che raccontano di essere stati sottoposti a "torture e violenze di ogni tipo" e ha documentato dall'interno quello che accade dentro la struttura.
"Come San Patrignano"
Gli esperti sottolineano alcune affinità tra il metodo applicato nella comunità Shalom e quello di San Patrignano dell'epoca di Muccioli. Entrambe nascono successivamente al boom dell'eroina scoppiato alla fine degli anni ‘70 in Italia. È in questo frangente che su tutto il territorio italiano nascono le prime comunità per tossicodipendenti. Nel 1978, nella campagne di Rimini, Vincenzo Muccioli fonda San Patrignano: qui arriveranno migliaia di persone e il leader carismatico della comunità metterà a punto un metodo che, se inizialmente sembrerà salvifico, a partire dalla metà degli anni ‘80 sarà oggetto di un processo, giuridico e mediatico. Quasi dieci anni dopo, nel 1986, a Palazzolo sull’Oglio, in provincia di Brescia, Suor Rosalina Ravasio fonda la comunità “Shalom”.
Luigi Guarisco, esperto di comunità terapeutiche, per anni al servizio del Gruppo Abele, che dagli anni ‘70 si occupa di recupero di tossicodipendenti, negli anni è entrato in contatto con ex ospiti di San Patrignano e della comunità di Suor Rosalina e riconosce dei punti di contatto tra le due realtà: “Gli elementi che accomunano la comunità Shalom e San Patrignano sono tre: il primo è il numero esorbitante all’interno del servizio, perché è molto difficile gestirlo in termini pedagogici, educativi e riabilitativi; il secondo elemento è l’affidare la responsabilità educativa a degli ex tossicodipendenti, che terminato il loro programma, invece di uscire a vivere la loro vita, rimangono dentro; e il terzo elemento è quello della punizione, ma quando parlo della punizioni intendo quelle veramente esorbitanti, che anche a livello legale forse non sarebbero da utilizzare”.
Il numero di ospiti di Shalom
Dentro Shalom oggi vivono oltre 200 persone, 130 uomini e 80 donne circa, ma in passato la comunità di Suor Rosalina Ravasio è arrivata a contare anche 300 ospiti. Un numero enorme, secondo gli esperti: “Una comunità con 300 persone non è una comunità”, afferma lo psichiatra Tommaso Losavio, medico psichiatra, collaboratore di Franco Basaglia e protagonista della stagione che portò alla chiusura definitiva dei manicomi. “In una comunità – afferma – il numero massimo è di 20-25 persone”. Anche secondo Luigi Guarisco, infatti, è “molto difficile gestire un numero così alto di persone in termini pedagogici, educativi e riabilitativi”.
Chi sono gli ospiti della comunità
Gli ospiti che vivono nella Shalom non sono soltanto tossicodipendenti, come era stato all'inizio. Nella stessa struttura convivono oggi persone affette da diversi tipi di dipendenze e patologie: oltre alle persone dipendenti da sostanze stupefacenti, ci sono persone affette da depressione e da patologie psichiatriche, ragazze con disturbi alimentari, ma anche donne vittime di violenza e madri single, ragazzi giovanissimi con problemi comportamentali e detenuti che qui scontano la loro pena. “Sono problemi completamente diversi, non si può applicare – ammesso che siano leciti e giustificati – i metodi repressivi applicati ai tossicodipendenti per pazienti che hanno problemi di tipo psichiatrico. Le difficoltà sono completamente diverse”, spiega il dottor Losavio. Anche secondo altri esperti il metodo dentro le comunità non può essere uno solo: “Si personalizza molto la relazione personale con il tossicodipendente, – afferma l'esperto di comunità Luigi Guarisco – ognuno dei quali ha un punto di riferimento dentro la comunità. Il programma che si fa, di solito, è personalizzato, mentre dentro la comunità Shalom mi sembra che ci sia il metodo del responsabile e quel metodo deve essere uguale per tutti”.
Una sola terapia per tutti
Tutti dentro Shalom sono sottoposti alla stessa terapia, messa a punto negli anni dalla responsabile della comunità: la cristoterapia, la terapia della fede. Come si evince nei filmati dell'inchiesta, tutto gira attorno alla preghiera, durante l’arco della giornata, anche durante le ore lavorativi, gli ospiti recitano incessantemente i rosari e i canti sacri. Secondo molti ospiti e anche a giudicare dalle parole di suor Rosalina Ravasio non ci si può sottrarre dalla preghiera. “Ammesso che la religione sia una regola, non deve diventare una coercizione. La preghiera può aiutare qualcuno a migliorare uno stato d’animo e questo rende la persona più suscettibile, ma non può rappresentare un elemento di terapia fondamentale come nel caso della tossicodipendenza”, spiega il tossicologo Claudio Leonardi, direttore del dipartimento tutela delle fragilità della Asl Roma 2 e presidente della Società Italiana Patologie da Dipendenza. Ad avvalorare questa tesi è il dottor Losavio: “Si può avere fede o meno, ma non c’entra niente con i problemi reali delle persone che stanno male. Cristo non è un sistema di cura”.
L'uso degli psicofarmaci
Ma la terapia di suor Rosalina non prevede solo la preghiera: gli ospiti vengono anche somministrati psicofarmaci. “Il tossicodipendente è un farmacodipendente, cioè è una persona che ha assunto un ‘farmaco’ – eroina, cocaina, cannabis – quindi una sostanza che ha avuto un effetto farmacologico sul cervello. I dosaggi dei farmaci di cui parlano gli ospiti di questa comunità sono abbondanti, sicuramente non sono giustificati per lunghi periodi, perché alcuni psicofarmaci determinano una condizione di dipendenza che è sovrapponibile se non peggiore alle sostanze che hanno portato questa persona a essere un tossicodipendente”, spiega il dottor Claudio Leonardi, specializzato in tossicologia. Nei video che documentano la vita dentro Shalom, è possibile constatare gli effetti di questi psicofarmaci sulle ragazze: molte ospiti durante il giorno si addormentano sui tavoli o con lo sguardo perso nel vuoto. Una ex ospite, che dentro Shalom ha vissuto 18 mesi, ha questo ricordo: “Con gli psicofarmaci eri sedato, così non piangi, non ti ribelli, non vuoi andare a casa, non vuoi parlare con i tuoi genitori, rimani in uno stato di semicoscienza”.
La distribuzione dei farmaci, che vengono prescritti da alcuni medici volontari, viene effettuata dagli stessi ospiti, quelli che sono in comunità da più tempo e sono stati investiti da suora Rosalina della responsabilità di occuparsi dell’infermeria. Nei video registrati dentro la Shalom si vedono diverse ragazze fare l’appello di sera prima di andare a dormire e procedere alla distribuzione dei farmaci alle altre altre ospiti, assicurandosi che la cura venisse regolarmente assunta.
Un ex ospite, addetto alla farmacia della comunità, racconta di essere arrivato a distribuire fino a 250 dosi di farmaci al giorno e come lui alcuni suoi compagni, tutti senza avere la competenza e la formazione per questa mansione: “È capitato che qualcuno di noi sbagliasse dosi. Un giorno a una ragazza è stata data una doppia dose di Entumin e la sua temperatura corporea è scesa a 33 gradi centigradi”. Si tratta di una grave irregolarità, secondo il dottor Tommaso Losavio, perché “Non è possibile che una infermeria venga affidata a una persona che sta in comunità da molti anni ed è passata attraverso una trafila formativa interna”. Anche sulla somministrazione dei farmaci, lo psichiatra Losavio sottolinea l’anomalia: “I farmaci vanno tenuti sotto controllo da un infermiere e vanno somministrati da un infermiere, anche in una struttura di cinque persone. Come è possibile che in una struttura così grande una persona che non ha nessuna competenza gestisca farmaci che hanno effetti collaterali anche molto pesanti?”.
Nei video registrati dentro la comunità una delle operatrici che lavora nella sezione delle donne ci spiega che “non serve studiare qui”, perché quello che conta è “fare esperienza ed essere obbedienti alla suora”. Quello degli operatori non formati è un dato che preoccupa gli esperti, perché “gli operatori di comunità devono avere una formazione ben precisa”, spiega il tossicologo Claudio Leonardi. “Molte comunità utilizzano come operatori ex tossicodipendenti, ma non significa che aver avuto un passato simile a quello degli ospiti fa sì che automaticamente diventino operatori abilitati al recupero. Il recupero e la riabilitazione di una persona devono passare attraverso processi che devono essere insegnati. Senza questa formazione non è detto che sia garantito il recupero della persona”.
“Gnari, mezzi e vecchi": la piramide della comunità
Dentro la comunità esiste una gerarchia precisa che, secondo lo schema ideato da suor Rosalina Ravasio, dovrebbe sopperire alla necessità di operatori specializzati. La gerarchia prende in prestito i nomi dal dialetto bresciano: sul gradino più basso della piramide ci sono gli “gnari”, i giovani, i nuovi della comunità; subito sopra ci sono i “mezzi”, chi ormai è in comunità da qualche tempo e inizia a ricevere delle responsabilità, come accompagnare in ogni spostamento gli "gnari"; infine ci sono i "vecchi". Sono loro che, investiti dalla fiducia di suor Rosalina, hanno il potere di gestire le attività più importanti dentro la comunità. I cosiddetti "vecchi" sono il filo diretto con le decisioni che la responsabile della comunità suor Rosalina Ravasio prende per ogni ospite.
Come spiega l'esperto di comunità, Luigi Guarisco: “Gli ex utenti dovrebbero essere utilizzati a livello di volontariato per degli accompagnamenti, non come operatori”. E questo perché si tratta di soggetti “molto rigidi, che sono quelli che poi arrivano a delle punizioni anche corporee, come se dovessero far pagare agli altri gli insuccessi della vita che hanno avuto. Inconsapevolmente, ma c’è dentro di loro una dimensione violenta di questa esperienza fatta, e poi è facile che la scarichino sugli altri”.
Questa struttura gerarchica, per lo psichiatra Tommaso Losavio, “non può essere assolutamente applicata nelle comunità in cui non ci sono solo tossicodipendenti, ma sono presenti anche pazienti psichiatrici, che hanno bisogno di tutt’altro tipo di attenzione, di esperienza, di capacità di presa in carico. Qui mi sembra che queste persone abbiano più un ruolo di guardiani, di custodi, che stiano più attenti ai comportamenti e non alla sofferenza, alla malattia e al disturbo”.
Bastone e carota
Una delle consacrate che lavorano al fianco di suor Rosalina Ravasio, nei filmati dell'inchiesta parla del loro metodo di “bastone e carota”, perché – ci spiega – “l’educazione è sempre correttiva, non ti deve dispiacere per queste persone, sono così perché hanno voluto ridursi così, non sono state sfortunate, adesso pagano le conseguenze. Non sono degli agnellini, loro sono delle canaglie che cerchiamo di trasformare e di smettere di fare le stronze e le tossiche continua". Secondo lo psichiatra Tommaso Losavio che ha dedicato la sua vita a combattere l'istituto dei manicomi intravede in questo tipo di metodologie molte affinità con l'istituzione totale, tipica dei manicomi, che proprio con il suo collaboratore Franco Basaglia avevano messo al bando. “Non c’è niente di scientifico qui. Si cerca di trasformare la persona affidata per problemi personali anche gravi e di adattarla ai meccanismi istituzionali di un’istituzione totale. I tuoi problemi non interessano, stai qui perché devi rispettare le regole che io ti do: questo è il bastone e la carota, che nel 2023 non è un metodo pedagogico. Qui la persona viene completamente svuotata delle sue competenze e delle sue capacità”, – spiega lo psichiatra – "questo è un piccolo manicomio.
Molti ex ospiti riportano nelle loro testimonianze la sensazione di essere stati "annullati". Una delle donne ci racconta la sua disperazione: “Tu eri un rifiuto della società e dovevi ringraziare la suora perché ti stava riabilitando. Eri depredata da ogni dignità, perché lì dentro sei un cognome, un numero. Non sei una persona con problemi, sei solo un drogato. Devi resettare la tua vita precedente ed entrare nell’ottica che quella è la tua vita adesso: obbedire, pregare e lavorare”. Questo tipo di processo, ci spiega il dottor Losavio, ha un fine ben preciso: "Le persone vengono spogliate di tutto perché devono perdere la loro identità nel momento in cui entrano e adeguarsi alle regole dell’istituzione, non ai bisogni personali”.
Anche il lavoro, che in molte comunità è presente all'interno di un percorso terapeutico, dentro Shalom ha delle caratteristiche molto peculiari. Molti ex ospiti sostengono di aver passato intere giornate chiusi dentro dei laboratori, che cambiano a seconda della “gravità” delle problematiche. In questi laboratori ragazzi e ragazze lavorano agli appendini o alle guarnizioni di plastica, lavori commissionati da aziende esterne alla comunità. Come viene documentato nei video, su quegli stessi tavoli si lavora e si mangia senza soluzione di continuità: “Il laboratorio ergoterapico – cioè il lavoro manuale e meccanico inteso in senso terapeutico, ndr – non può essere il luogo dove si mangia a pranzo e cena, sembra una fabbrica. È inconcepibile per qualsiasi comunità accreditata dalla Regione”, spiega l'operatore sociale Marco Dotti.
Violenze verbali e psicologiche
Un altro punto su cui l'inchiesta si sofferma è il linguaggio usato da consacrati e "vecchi" nei confronti degli ospiti. “Le violenze verbali sono state già vissute dal tossicodipendente fuori dal contesto comunitario”, spiega il dottor Claudio Leonardi, che precisa: “Violenza, parolacce e coercizioni non portano da nessuna parte e non sono sicuramente degli strumenti che possono essere utilizzati all’interno di un qualsiasi contesto terapeutico, indipendentemente se parliamo di un servizio pubblico o di una comunità”.
Secondo gli ospiti, le violenze passerebbero anche per l’isolamento e la privazione di contatti con l’esterno. Gli ospiti potrebbero vedere le loro famiglie solo sei mesi dopo l’ingresso in comunità e poi una volta al mese. I contatti con l’esterno sarebbero limitati a questo appuntamento e a pochi altri. Nei video ripresi all'interno della Shalom, una delle ragazze chiede cosa stia succedendo fuori dai cancelli della comunità: “Ma sai qualcosa… piove, non piove? L’operatrice ci ha detto anche della Russia che ha chiuso il gas al mondo”. A proposito di questo tema, il dottor Claudio Leonardi spiega: “Il percorso comunitario prevede diverse fasi, in queste fasi si deve permettere a questa persona di ritornare ad avere rapporti con l’esterno. Serve per riprendere un rapporto che è stato completamente mistificato dal consumo di sostanze stupefacenti. E questo può avvenire anche con i media, quindi con una conoscenza di quello che accade all’esterno”.
A proposito dell’isolamento, il dottor Losavio precisa che “le persone che hanno problemi psichiatrici hanno bisogno di avere rapporti, non di essere soli e isolati. Hanno bisogno di avere rapporti empatici, rapporti terapeutici, non di essere abbandonati alla solitudine in cui i problemi legati alla malattia incombono ancora più pesantemente”.
Le punizioni
Il metodo Shalom, secondo il racconto degli ex ospiti, prevede anche una serie di azioni punitive che servono a far rigare dritto gli ospiti. "I laboratori sono delle specie di celle di detenzione in cui, sorvegliati a vista, si sconta la propria pena", raccontano alcuni ragazzi. Le punizioni sarebbero diverse: da quella del silenzio – in cui, isolati dal resto della comunità, gli ospiti sono obbligati a stare faccia a muro senza fiatare – a quella del “saltare i pasti” e i pochissimi momenti ricreativi, per passare alle notti in piedi con un "vecchio" che tiene sveglio l’ospite, fino ad arrivare alla punizione della carriola, ovvero girare in tondo per ore con una carriola piena di sassi.
Per quanto riguarda la "punizione della carriola", una delle più praticate dentro la comunità, lo psichiatra Tommaso Losavio afferma: “Non so chi si sia inventato una cosa del genere. Far ruotare con una carriola piena di sassi le ragazze ‘più problematiche’ fa sì che i loro problemi vengano risolti? Mi pare una cosa assolutamente senza senso”. Anche il dottor Claudio Leonardi non riconosce una validità terapeutica: “La terapia della carriola mi mancava. Dopo 30 anni ho imparato che c’è la possibilità di sottoporre delle persone ad azioni coercitive che di terapeutico non hanno nulla. Mi rimane difficile da comprendere quale sia l’obiettivo terapeutico e soprattutto quale sia lo strumento terapeutico che viene messo in atto. In base alla mia esperienza, fare un’attività lavorativa all’interno di un percorso comunitario serve: è giusto che all’interno di un recupero di regole di vita ci sia anche il lavoro e la fatica del lavoro. La fatica di trasportare una carriola piena di sassi in circolo senza nessun costrutto obiettivo e senza, soprattutto, che questo sia il corrispettivo di una attività lavorativa vera e propria secondo me non ha senso”.
Rispetto alle punizioni, il dottor Leonardi sottolinea: “Sottoporre una persona al silenzio coercitivo, farle trasportare sassi senza nessun costrutto, tenerla davanti a un muro senza poter avere rapporti con gli altri, non farla mangiare o tenerla sveglio: queste sono delle violenze che non portano da nessuna parte e che non hanno nessun obiettivo terapeutico”.
La scelta di andare via
Gli ex ospiti raccontano anche la difficoltà di uscire dalla comunità: “Anche se chiedevi di andare via, non ti lasciavano andare. Dovevi parlare con la suora e spesso ci dicevano che non c’era, non avevamo i documenti con noi e al cancello c’era sempre qualcuno a sorvegliare ingressi e uscite”. La scelta di restare o andare via nel percorso di fuoriuscita dalla dipendenza è un elemento da non sottovalutare: “Se una persona dice che in comunità non ci vuole stare, intanto si cerca di capire perché; poi si cerca di capire perché l’ho messo in quella comunità, perché è anche possibile che l’errore sia stato il mio. Una volta che si è capito, se si pensa che quella permanenza in quella comunità non sia adeguata, o si trova un’altra comunità o si trova un’altra soluzione. Ma nell’ambito di un pacchetto di risposte che il servizio ha a disposizione”, spiega il dottor Losavio. A sottolineare l’importanza della scelta è anche Leonardi: “Si possono creare delle dinamiche all’interno della comunità per cui il soggetto è giusto che chieda di essere allontanato e ricominciare quindi a quel punto a lavorare su questo soggetto. Perché è possibile che la valutazione non sia stata corretta, la tipologia di comunità non era corretta e il tempo di ingresso in comunità nonostante tutto non era corretto. A quel punto o si modifica il percorso di comunità – laddove la comunità possa offrire più percorsi – o il soggetto viene ‘liberato’”.
I tempi di permanenza
Nella comunità di Suor Rosalina il percorso minimo di uscita dalla tossicodipendenza (ma anche da tutte le altre problematiche) è di minimo cinque anni, come viene prospettato agli ospiti nei colloqui di ingresso. Dentro la comunità ci sono ospiti che sono arrivate a Shalom 10, 12, 20 anni fa. È sempre suor Rosalina a decidere quando finisce il percorso di ogni singolo ospite. Marco Dotti, esperto di comunità, spiega che Shalom viene letta dalle famiglie in difficoltà come una sorta di scorciatoia: “La soluzione proposta sembra quella più facile da attivare, mentre invece fuori significherebbe fare degli incontri al Sert, la presa in carico da parte dei dottori, lunghe valutazioni prima di proporre il tipo di intervento”. A Shalom si arriva senza passare per lo Stato, con colloqui diretti: “Tutti i normali passaggi Shalom li salta a piè pari per presentarsi come la panacea di tutti i problemi. In realtà risolvere il problema si traduce per Shalom in una permanenza nella struttura di otto anni: ma quando mai una persona deve stare otto anni per curare un problema di dipendenza dalla cocaina? In otto anni la vita cambia completamente, a prescindere dall’intervento”, spiega ancora Dotti.
Luigi Guarisco parla di “supplenza della dipendenza”: la media dei programmi, spiega l’esperto, va da un anno e mezzo ai due anni, quando si supera questa soglia di tempo, “finché stai lì, se sei protetto dalla sostanza, è logico che non ti fai, ma la dipendenza che avevi prima dalla sostanza diventa dipendenza dalla struttura, quindi non si potrà mai sapere fino a quando ti puoi definire una persona capace di autonomia. O vanno via perché sono stufi oppure rimangono dentro perché hanno paura di uscire”. Questa paura è evidente anche all'interno dei video registrati dentro la Shalom, diverse persone hanno espresso proprio la preoccupazione di uscire dalla comunità e non sapersi approcciare alla vita fuori. Per il dottor Losavio il percorso dentro: “Il periodo speso dentro quesa comunità non ha senso perché non è inserito in un progetto di cura, ma in un progetto di internamento”. La domanda che si pone lo psichiatra è una: “Dopo dieci anni queste persone che fanno? Dove vanno? Come sono ridotte?”.
Zero controlli
Quella in Shalom è una permanenza infinita dentro una struttura che le testimonianze che abbiamo raccolto hanno paragonato a una comunità dell'orrore. La suora ripete come un mantra che è la provvidenza ad aiutarla, perché sceglie di non ricevere finanziamenti dallo Stato. Secondo l'opinione di Carlo Dotti: “Il servizio sanitario non paga la retta per le presenze, perché Rosalina non ha mai chiesto questo accreditamento. Sarebbe conveniente economicamente, eppure non l’ha fatto. Perché? Perché in quel caso la struttura avrebbe dovuto rispondere a determinati parametri: se ho una comunità di dieci posti, ho bisogno di avere due educatori professionali, coprire le notti con delle figure professionali, uno psicologo, uno psichiatra, i locali devono avere tutta una serie di conformità, le attività che si dichiarano di fare devono essere fatte, come anche i gruppi e le attività ergoterapiche e altro. In Shalom questi parametri non sono rispettati".
"La comunità di Palazzolo va chiusa"
Secondo gli esperti che abbiamo consultato, parte della responsabilità di quello che sta accadendo in questa comunità sarebbe da attribuirsi anche alle istituzioni: “Le comunità terapeutiche, pubbliche, private o convenzionate, devono aderire a dei criteri e devono essere controllate dal sistema sanitario nazionale. Anche se si tratta di una struttura privata. Questa comunità ha delle caratteristiche di gestione che non sono diverse da quelle di un manicomio”, spiega il dottor Losavio.
“Per qualcuno le condizioni di Shalom sono quelle giuste perché si ha in mente un modello monastico o della penitenza medievale”, afferma Carlo Dotti, che si riferisce ai ritmi di lavoro che vanno oltre la soglia di orario consentito, lavori reiterati e privi di fini terapeutici, la mancanza di riscaldamento nelle camere e nei laboratori – come confermano diverse testimonianze – cibo scaduto, ma anche l’atteggiamento di operatori e vecchi che utilizzano l’insulto come metodo di comunicazione.
“Il modello Shalom è assolutamente ingiustificabile dal punto di vista professionale e operativo”. E la soluzione possibile, secondo il dottor Losavio è solo una: “Questa comunità funziona come un manicomio, quindi l’unica strada è chiuderla. Vanno trovate delle sistemazioni, dei percorsi differenziati per le persone che oggi sono dentro, ma va chiusa. Non ci sono alternative”.