Ha una grande responsabilità l'Europa nel momento stesso in cui accetta di sedersi al tavolo della trattative con la Turchia: legittimare Recep Tayyip Erdogan e quel suo sinistro senso di democrazia. Eppure in Turchia negli ultimi mesi sono avvenuti fatti di inaudita gravità, situazione che desterebbero in qualsiasi altra nazione una sollevazione internazionale per la difesa dei diritti: la democrazia turca si sgretola sotto la feroce compiacenza di Erdogan e il suo partito Akp ("Partito della Giustizia e dello Sviluppo" avrebbe dovuto essere secondo il nome che si è dato). Così la soluzione per la crisi siriana e le situazione più calde del medioriente diventa la Turchia, secondo Europa e Usa, nonostante le sue insostenibili incongruenze.
La libertà di stampa, innanzitutto: il commissariamentio del gruppo editoriale Feza, proprietario tra gli altri del più diffuso quotidiano di Turchia (Zaman), si basa su assurde accuse di infiltrazioni terroristiche e ha silenziato con un colpo di mano la voce più autorevole dell'opposizione. Ed è il secondo feroce attacco negli ultimi quattro mesi: nell'orrore dell'anno scorso il tribunale di Ankara ordinò il sequestro del gruppo industriale Koza-Ipek e di tutti i suoi media. Mancavano solo quattro giorni alle elezioni politiche del 1 novembre: "il presidente Erdogan e il suo governo considerano tutte le voci di dissenso come organizzazioni criminali” disse Kemal Kiliçdaroglu, leader del partito laico-socialdemocratico Chp. E L'Europa? Ferma. Questa settimana un giovane quotidiano (Karar) spunta nelle edicole per rompere il muro del silenzio ma è un'iniziativa di Gül e del ministro degli Esteri, Yasar Yaris: l’editore e i giornalisti di Karar sono veterani di lunga data di alcuni media pro Akp. Minoranza interna, come si direbbe qui da noi. E sembra davvero troppo poco.
Del resto già dall'ultima vittoria di Erdogan alle politiche del 2015 la strana "democrazia secondo Erdogan" era inciampata in un autoritarismo contro la stampa dissidente: «Da quel momento il trend (verso l’autoritarismo e la repressione della libera stampa) è accelerato molto rapidamente- disse in un'intervista a Il Foglio Ilhan Tanir, analista turco e giornalista attualmente residente a Washington – Anche media mainstream ed equidistanti come Hurriyet e Cnn Turk hanno iniziato a licenziare giornalisti che erano conosciuti come nemici del presidente e ad addolcire i toni con cui trattavano il governo. Zaman invece ha continuato nelle sue critiche, ed era solo questione di tempo prima che lo colpissero.»
La scrittrice più letta del Paese, Elif Shafak, qualche giorno fa al Festival di Limes a Genova ha parlato poi del fenomeno più preoccupante: l'autocensura. «C'è una autocensura vasta, perché c'è un clima di paura e di intimidazione. Chiunque osi scrivere o parlare in modo critico viene attaccato immediatamente dai politici, linciato dai social media e dagli organi di stampa filogovernativi, perseguitato, mandato a processo. Gli accademici che avevano firmato una petizione criticando il governo per il suo atteggiamento con i curdi sono stati attaccati e vilipesi. Alcuni di loro hanno perso il lavoro, altri arrestati. Questo è inaccettabile. Questa allora non è democrazia» disse al giornalista di Repubblica. E quando l'autocensura diventa una forma mentis forse si è già oltrepassato il limite.
Ma anche la magistratura sembra ormai essere sotto lo scacco del governo, mentre gli antichi militari e gli oppositori vengono bollati come "terroristi" ogni volta che sono in disaccordo con le politiche di Erdogan. I liberali e i democratici appaiono schiacciati da uno scoraggiamento che non riesce ad accendere una vera spinta d'opposizione. Il parlamento timbra tutto ciò che il governo desidera, eccezion fatta per il folle emendamento bocciato qualche tempo fa che avrebbe in pratica concesso l'instaurazione di una vera e propria monarchia concedendo al Presidente poteri pressoché illimitati. Erdogan è al suo quattordicesimo anno di potere: troppo per qualsiasi democrazia, figurarsi per una così giovane com'è quella turca. Lo spirito riformista e la crescita economica degli ultimi anni sono diventati lo scudo per un modello di amministrazione che viola impunemente le regole dei diritti dell'uomo, eppure la Turchia è sempre più vicina all'ingresso in Europa e "tratta" sulla pelle dei rifugiati la propria credibilità internazionale. Siamo sicuri che ne vale davvero la pena?