Interrogatori quotidiani e quell’unica pillola chiesta per dormire: Cecilia Sala racconta il carcere di Evin
Non riesce a stare seduta troppo a lungo, Cecilia Sala, mentre racconta i suoi giorni di prigionia nella cella di isolamento del carcere di Evin. "Sono stata ferma tanto" si giustifica mentre risponde alle domande della giornalista de Il Foglio Paola Peduzzi. Sono giornate concitate, queste, anche se ormai per Sala la sua cella di Evin è fortunatamente un ricordo. Sul suo arresto è stata aperta un'inchiesta e la giornalista ha raccontato la storia del suo fermo anche alle autorità italiane una volta atterrata a Roma. Nel Podcast Stories di Chora Media ha risposto alle domande del suo direttore, Mario Calabresi, che le ha chiesto di raccontare i giorni in carcere.
Il tempo, come spiega anche alla giornalista de Il Foglio, era il suo principale nemico. Per trascorrere le giornate contava le dita delle mani e ha contato tutte le tacche che un detenuto prima di lei aveva lasciato sul muro giallino della cella. I giorni erano scanditi solo dal riflesso del sole che per alcune ore riusciva a infiltrarsi nella piccola finestra sul soffitto. "Solo in questo modo sapevo che ora fosse".
Ventuno giorni trascorsi quasi sempre da sola e in silenzio, almeno fino a quando nella cella non è arrivata un'altra detenuta, la 54enne Farzaneh. Sala sarebbe stata liberata di lì a poco, ma nell'ultimo periodo in compagnia della nuova prigioniera è rimasto nei pensieri della giornalista. "Penso molto a lei e a tutte le persone che sono ancora lì" ha spiegato.
Durante quelle settimane da prigioniera, la giornalista ha dormito a terra, stesa su una coperta ma senza cuscino. In realtà, racconta, dormire era molto difficile perché la lampadina restava sempre accesa e il suo cervello non riusciva a stancarsi, senza stimoli o cose da fare.
Per giorni, ha ricordato Sala, si sono inseguiti nella sua testa i racconti di ex detenuti ora all'estero e le storie di chi quel carcere non è riuscito a lasciarlo neppure dopo anni. Sono state pochissime le notizie dal mondo che è riuscita a carpire fra le mura della prigione. "Ho saputo che era morto Jimmy Carter, il presidente americano che gestì la crisi degli ostaggi all'ambasciata americana, il momento in cui si è sfasciato il rapporto tra la Repubblica islamica d'Iran e l'America. Mi ha fatto un po' ridere che tra tutte le cose possibili che potevano dirmi, ci tenessero a citarmi proprio la morte di Carter".
Ogni giorno per due settimane la giornalista è stata interrogata. Il contenuto di quelle domande la tormentava poi di notte, quando il timore che le sue dichiarazioni potessero essere usate contro di lei o i suoi cari la assaliva. "Mi chiedevo cosa avrebbero usato contro le persone che ho incontrato in Iran. Avevo paura di metterle in pericolo".
Per non farsi annichilire dal silenzio e dalla paura, Sala ha cercato di darsi piccoli obiettivi quotidiani da raggiungere: una sigaretta, i datteri da mangiare, la possibilità ogni tanto di uscire (seppur sola) nel cortile della struttura di Evin. Solo una volta ha chiesto una pillola per dormire, ma poi non lo ha più fatto. "Troppo stordimento" ha spiegato.
Ha chiesto più volte un libro, anche se non aveva gli occhiali. "Non te li danno per motivi di sicurezza – ha spiegato – ma non ho avuto neppure le lenti a contatto con cui non puoi farti male". Non ha ricevuto neppure un Corano in inglese, una delle sue ultime richieste nella struttura di Evin.
La giornalista racconta di non aver voluto subito credere alla liberazione. "Non potevo farlo. Sono tornata in cella e mi sono cambiata togliendo la divisa del carcere, ho salutato Farzaneh e quello è stato il momento più difficile. Ricorre ancora nei miei pensieri. Lei era un'oppositrice, è rimasta nella cella da sola così come tanti dissidenti". Sala è salita presto a bordo di un'auto bianca che l'ha portata via dalla struttura di Evin, attraversando l'intera Teheran. In quei momenti l'ha assalita la paura che quel viaggio fosse in realtà un trasferimento in un altro carcere. "Gioivo di poter rivedere la luce e il cielo dopo tanto tempo. Ho guardato quella città amata che era diventata una prigione e ho pensato che quella poteva essere l'ultima volta che l'avrei vista. Ho capito che ero davvero libera solo quando ho visto il primo volto italiano in aeroporto".
La mattina del 7 gennaio, ricorda Sala, c'era stata una telefonata con i familiari a casa e aveva raccontato che l'isolamento era finito e che finalmente aveva compagnia, che le sue condizioni erano leggermente migliorate. Dopo quella telefonata c'era stato un lungo interrogatorio in un'aula che gli ex detenuti chiamano "la corte", nella quale molte persone hanno visto chiudere il loro dossier. Le "testimonianze" vengono scritte a mano, firmate e usate per formalizzare l'accusa. In quella stanza, invece, Cecilia ha scoperto che le autorità volevano liberarla. Non ha voluto crederci fino a quando non è finalmente arrivata in aeroporto, pronta per tornare finalmente nel suo Paese e riabbracciare la persona che più le è mancata. "Il mio compagno – ha spiegato -. Lui sa rimettere insieme i miei pezzi".