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Totò Riina è morto, la mafia no

In morte di Totò Riina: sempre meglio lo Stato di diritto che la mafia

La morte di Totò Riina dovrebbe indurci a soffermarci su un altro tema, quello dello Stato di diritto. Contro la criminalità organizzata non è giusta né efficace la faida: servono verità, memoria, educazione e diritti.
A cura di Roberta Covelli
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Questa notte è morto Totò Riina. Aveva ottantasette anni ed era in carcere da ventiquattro. Sottoposto al regime del 41-bis, una sorta di isolamento a tempo indeterminato, non si è mai pentito. Insieme a Provenzano, è stato tra i responsabili della svolta corleonese di Cosa Nostra, che ha portato alle stragi di mafia del 1992-1993, culminate paradossalmente (ma neanche troppo) proprio nel suo arresto.

Sarebbe interessante approfittare dell’occasione per delineare la storia della mafia e smontare le bufale sulla criminalità organizzata che, prima di Riina, non avrebbe mai ammazzato bambini (e invece uccideva, e non solo per sbaglio: era il 1948 quando toccò a Giuseppe Letizia, il pastore dodicenne che aveva assistito all’omicidio di Placido Rizzotto) o che non avrebbe mai fatto stragi (Portella della Ginestra resta una ferita aperta, ma ci furono anche via Ciaculli, Canicattì, la strage di viale Lazio, quella della circonvallazione, di via Carini, di Pizzolungo e troppe altre).

O, ancor di più, si potrebbe valutare come la mafia abbia un ruolo politico e sociale e decidere di affrontarlo politicamente: quel che don Peppe Diana scriveva riguardo alla Camorra nel suo Per amore del mio popolo non tacerò vale ancora oggi, pure per le altre associazioni mafiose.

La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale.

Ma la morte di Totò Riina o, meglio, il dibattito di cui già si aveva avuto un’anticipazione quest’estate, inducono a soffermarsi su un altro tema, quello dello Stato di diritto.

Lo Stato di diritto non è soltanto un ordinamento giuridico, cioè un insieme sistematico di regole fissate per la gestione dei poteri e per l’amministrazione della giustizia. L’ordinamento dello Stato di diritto si qualifica perché pone il rispetto di diritti e libertà come base, come norma fondamentale. E i diritti – è il caso di chiarirlo subito – spettano a tutti, buoni e cattivi, biondi e mori, femmine e maschi, cittadini e stranieri, mafiosi e probi, a prescindere da sesso, razza, lingua, religione e condizioni di vita.

Quindi, Totò Riina aveva diritto alla libertà personale? No, perché è stato condannato alla sua limitazione, per aver violato i diritti di altri, infrangendo le regole della comunità umana oltre che dell’ordinamento italiano, cioè della società in cui viveva e di cui faceva parte.

Totò Riina aveva diritto alla dignità? Sì, perché era un essere umano.

È necessario specificarlo perché non è difficile sentire e leggere commenti che si riferiscono alle sue vittime, alla dignità che, a loro, non fu garantita: Riina avrebbe dovuto soffrire quanto coloro che ha ucciso o fatto uccidere, a scegliere la sua pena dovrebbero essere i parenti che piangono gli ammazzati dalla sua sete di potere. Si tratterebbe di un discorso estremamente logico, se solo ci trovassimo in una civiltà di una quarantina di secoli fa, come la Babilonia in cui vigeva il Codice di Hammurabi, o se ci trovassimo in una delle tribù barbariche in cui il diritto consuetudinario imponeva l’ordalia e la faida.

Sarebbe un discorso ineccepibile pure se fossimo dei mafiosi. La mafia ha un ordinamento giuridico, che si caratterizza peraltro, oltre che per una gestione del potere estremamente funzionale, per la certezza del diritto dal punto di vista sanzionatorio: chi entra nell’organizzazione sa perfettamente che, macchiandosi di determinate colpe, ne subirà le conseguenze. Le pene non sono graduate, anzi, si può dire che ne esista una sola, la morte, inflitta al reo o ai familiari. Le previsioni di tutela dell’imputato sono praticamente assenti, perché la mafia ha un ordinamento, sì, ma non è uno Stato di diritto. A differenza della Repubblica democratica italiana.

E le vittime? Le vittime non possono né devono avere ruolo nel diritto penale, quello cioè che prevede le sanzioni: è compito dello Stato (dello Stato di diritto) bilanciare la protezione della collettività e la rieducazione del criminale (mafioso o comune), senza sfociare in trattamenti inumani e degradanti. Il diritto penale non è infatti una questione privata, ma la previsione e l’applicazione, da parte di un attore pubblico, di leggi che puniscano i reati.

La forza di uno Stato di diritto, inoltre, sta anche nell’evitare il rischio che ci siano vittime: ma dov’è, oggi più di ieri, la lotta alla mafia, nei programmi elettorali dei partiti che si presentano per governare il paese? Dov’è il presidio democratico nei piccoli centri, in cui basta il minimo sforzo mafioso per ottenere modifiche ai piani di governo del territorio che portano, nelle tasche della criminalità organizzata e degli imprenditori con essa conniventi, soldi e affari? Dov’è la politica contro la mafia, che, per parafrasare Carlo Alberto dalla Chiesa, dovrebbe dare ai cittadini sotto forma di diritti ciò che la mafia dà loro sotto forma di favori?

Se infatti i diritti sono al centro del nostro ordinamento, allora l’esistenza di una vittima è il segno del fallimento nella protezione di quei diritti, che si sarebbero dovuti garantire e non retribuire a posteriori: l’occhio per occhio è infatti faida, cioè la stessa logica con cui la mafia insanguina le strade (ma di cui ci interessiamo poco, “finché s’ammazzano tra loro”, e replichiamo recite rodate e tranquillizzanti). E la faida non è solo violenta, visto che aumenta il numero di vittime e carnefici, ma è anche sostanzialmente inutile, perché nessuno è mai resuscitato con la morte del suo assassino.

Questo non significa che le vittime non meritino niente, anzi, dovrebbero ricevere ben più di quanto nella pratica ottengano.

Innanzitutto, la verità. Da Pippo Fava a Peppino Impastato, la storia delle vittime deve troppo spesso essere difesa con forza da familiari e amici, contro pressappochismo, pettegolezzi o veri e propri depistaggi.

Poi, la memoria. La verità non basta, perché la ferita si cura solo con la conoscenza, che rende immortali le vite stroncate. Totò Riina è morto, ma quelli che ha fatto ammazzare devono essere vivi, proprio grazie a lui: questa dev’essere la beffarda condanna perpetua inflitta ai violenti.

Infine, il risarcimento. Non è il denaro a restituire una vita, ma privare una famiglia mafiosa di un capitale lo sottrae ad altri disegni criminali, impedendo -chissà- altre vittime. E il denaro, unito alla memoria, potrà essere investito in progetti virtuosi e, allora sì, educare le nuove generazioni, come augurava Paolo Borsellino, a “sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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