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Il terremoto mai finito: L’Aquila dopo il 6 aprile 2009

L’Aquila uccisa due volte: prima dalla natura con il terremoto, poi da uno Stato disinteressato al suo reale e concreto futuro.
A cura di Nadia Vitali
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Un terremoto è una ferita che non si chiude mai. Passano gli anni e le città restano aggrappate alla memoria della sciagura che, in una manciata di secondi, può distruggere per sempre vita, ricordi, emozioni, affetti, sogni e speranze: tutto quello che era prima viene cancellato da quel momento in cui la terra si squassa e inizia a tremare, con quel rombo che si direbbe quasi una voce sotterranea che urla per uscire. Sono passati due anni da quella terribile notte in cui L’Aquila si svegliò mentre i suoi edifici cominciavano repentinamente a crollare: un anno e mezzo di “sciame sismico” aveva già provato la popolazione abruzzese, ormai avvezza a scosse che si ripetevano e ciononostante spaventata all’idea che potesse accadere qualcosa di più grave. Poi, quella cosa grave, accadde: di notte, quando nei nostri letti crediamo di essere al sicuro, quando i bambini sognano, confortati dalla presenza dei genitori nella camera accanto che possono difenderli da qualunque pericolo.

Alle 3 e 32 del mattino del 6 aprile una scossa di magnitudo 5.9 con un epicentro nella zona compresa tra Genzano, Roio Colle e Collefracido in pochi attimi travolse centinaia di esistenze che si snodavano tra le strade, le piazzette e le chiese di quei borghi; L’Aquila, capolavoro dell’arte e vanto del nostro paese, meravigliosa città studentesca, crollava giù mentre i centri storici di comuni vicini (Bagno, Poggio di Roio, Onna) venivano praticamente rasi al suolo. Dalla mia casa di Roma, ricordo, di essere stata destata dalla scossa; furono in molti nella Capitale, non sapendo ancora cosa stesse accadendo, che lasciarono le proprie abitazioni, messi in allarme dalle proprie pareti che, per un lungo minuto, sembravano non volersi fermare più. Il paese si svegliò contando i propri morti finché riuscì ad assestarsi sulla drammatica cifra di 308, a cui si aggiunsero più di 1600 feriti e un’identità culturale che, in un tempo infinitesimale, è stata cancellata per sempre.

La terra d’Abruzzo, tristemente abituata come tutta quella zona ai terremoti, nel corso dei secoli ha dovuto spesso ricostruire i propri borghi principali: l’impegno e la tenacia degli aquilani che non volevano abbandonare il proprio amato paese, furono le spinte per ricostruire la città dopo terribili terremoti che la distrussero prima lungo l’arco del 1300 e poi nel 1703. Ma oggi i tempi sembrano essere cambiati: forse la nostra sensibilità del XXI secolo ci impedisce di comprendere cosa sia l’attaccamento “al campanile”, quello che ha consentito agli italiani di dimorare per secoli in zone come l’Abruzzo o come l’Irpinia, ricominciando a vivere nei luoghi in cui il tempo si era fermato, per trasformarli in qualcosa di nuovo da cui nuova vita potesse nascere; L’Aquila, al momento è ancora solo ed esclusivamente una immensa distesa di morte e tale sembra destinata a rimanere. Così c’è chi ha creduto che sia stato sufficiente dare agli aquilani “più fortunati” delle case nuove. Sradicandoli per sempre da un territorio che dava loro identità, con le sue viuzze e le sue facciate delle chiese, sacrificando tradizioni, cultura ed amore all’altare della “modernità” nel senso più deteriore che questa parola può incarnare, del consumismo, di chi voleva un appalto per usare un altro po’ di cemento (con la vergogna delle intercettazioni nella ricostruzione post terremoto); mentre le pietre della città restano lì accatastate, eterna vergogna, piaga che non si rimargina, volontà di riscatto che si scontra con l’ignoranza e la perfidia di chi “rideva in mezzo al letto” mentre la natura si scatenava in tutta la sua potenza.

Le bare allineate fanno ancora più male al pensiero che nessuno ha intenzione di far rivivere i luoghi in cui quelle persone trascorsero le proprie, talvolta davvero troppo brevi, esistenze; che dalle montagne di macerie non nasceranno i fiori di nuove vite ma, al massimo, la malerba che non manca mai. E al pensiero che in Italia esista gente come Roberto De Mattei, vicepresidente, per giunta, del Cnr che ha parlato del sisma in Giappone in termini di “voce della bontà di Dio” e di “esigenza di giustizia”: nessun dolore sembra si voglia risparmiare agli aquilani, ancora piegati sulle proprie tombe e sulle proprie pietre.

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