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Cambiamenti climatici

Il ricercatore italiano che rifiuta di prendere l’aereo per motivi climatici e rischia il licenziamento

Gianluca Grimalda è un ricercatore ed eco-attivista: attualmente si trova in Papua Nuova Guinea per motivi di studio sul campo, ma la sua università vuole che ritorni immediatamente in Germania prendendo un aereo. Tuttavia, lui si rifiuta di volare per motivi climatici.
A cura di Andrea Miniutti
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"Quando mi hanno dato la notizia ero un po’ terrorizzato, mi hanno anche bloccato lo stipendio senza avvertirmi, lasciandomi qui senza soldi": Gianluca Grimalda è un ricercatore presso il Kiel Institute for the Global Economy, ma è anche un eco-attivista di Scientist Rebellion, la costola accademica del movimento ambientalista Extinction Rebellion. In questo momento si trova a Bougainville, in Papua Nuova Guinea, per studiare l'impatto del cambiamento climatico sulla società. È arrivato nel Paese oceanino viaggiando quasi interamente senza usare l'aereo, circa 22mila chilometri percorsi in un mese e  interamente documentati sui social: dalla Germania all'isola nel Pacifico con bus, treni e traghetti, anche se nell'ultimo tratto, per raggiungere Bougainville, è stato costretto a prendere un volo. Ora, rischia di perdere il suo posto di lavoro da ricercatore perché si rifiuta di tornare a Kiel con un biglietto aereo: "Voglio dare un segnale: dobbiamo invertire la rotta, sennò diremo addio al nostro mondo per come l'abbiamo conosciuto".

Dottor Grimalda, ci racconta cosa sta succedendo?

L'Università di Kiel deve darmi due ammonimenti per potermi licenziare e, da quello che mi stanno dicendo, sembrano determinati a farlo. Il primo è scaduto lunedì, il giorno in cui l'istituto mi ha imposto di tornare: si sono proposti pure di pagarmi il biglietto, ma io ho rifiutato. Il secondo avvertimento, invece, dovrebbe arrivarmi domani, probabilmente con l'obbligo di rientrare entro questo venerdì. Nel caso io non mi presentassi, mi consegnerebbero la lettera di licenziamento.

Lei cosa ha intenzione di fare?

Io rimango fedele ai miei principi, cioè di non utilizzare l'aereo almeno che non ci siano alternative. Per il ritorno sono riuscito a prendere accordi con una nave mercantile che, partendo lunedì, mi porterà fino a Singapore in una settimana, dove dovrò prendere accordi per i visti. Nel complesso, il mio viaggio fino a Kiel dovrebbe durare circa 50 giorni.

Quindi lei verrà licenziato.

Non hanno ancora emesso il secondo ammonimento, quindi io spero che cambino idea: per questo ho lanciato una campagna di sensibilizzazione sui miei profili social. Tuttavia, credo che non ci sarà nessuna marcia indietro, quindi io già da questo venerdì potrei perdere il mio posto da ricercatore.

Leggendo questa storia, si potrebbe dire che l'università ha ragione a licenziarla perché non sta tornando sul posto di lavoro…

Questo è il punto centrale della storia: nei due mesi di spostamento per il ritorno io comunque lavorerei. I miei colleghi sanno bene come io riesca a svolgere le mie mansioni ovunque, che sia seduto in un treno, in un pullman o in un ufficio. Anche il mio capo riconosce come io lavori bene mentre sono in viaggio e, oltretutto, in passato mi ha sempre riconosciuto i miei spostamenti come tempo di lavoro. Infatti, è assurdo che l'Università di Kiel mi stia obbligando a tornare. Io non ho nulla da fare che richieda la mia presenza nell'ateneo, visto che quando sono lì passo le mie giornate in uno studio senza parlare con nessuno, al massimo intrattengo conversazioni via Skype. Quindi, non c'è nulla che io debba fare a Kiel che io non possa fare viaggiando.

Allora qual è il motivo di questa imposizione?

Forse vogliono cogliere un'occasione. Mi sa che si sono legati al dito le volte che ho fatto disobbedienza civile, in particolare quando – assieme ad altri attivisti – abbiamo occupato la Volkswagen al padiglione Porsche, azienda sponsor dell'università. Oppure, ci sono altre ragioni che io non ho ancora capito bene: magari sono così ossessionati dalle regole, in linea con il rigore culturale della Germania. Capisco che il mio permesso di studio all'estero sia scaduto il 10 settembre, ma io sono qui per fare ricerca: ho lavorato non meno di 16 ore al giorno, fine settimana compresi, perché dopo aver concluso il primo progetto ne ho avviati altri due, in modo da sfruttare al meglio l'occasione unica che mi ha consentito di essere qui. Posso comprendere che loro non vogliano rendersi responsabili di un mio viaggio attraverso Paesi pericolosi come il Pakistan e l'Iran, ma già per il viaggio di andata – durante l'attraversata di quegli Stati – mi ero messo in congedo non pagato, in modo da togliere tutta la responsabilità all'ateneo nel caso in cui mi fosse successo qualcosa. Mi sono offerto anche di mettermi in congedo pure per questi due mesi di ritorno, ma loro hanno rifiutato senza offrire nessuna spiegazione. Oltretutto, non mi hanno dato nessuna motivazione sul perché io debba tornare a Kiel, quindi trovo inconcepibile questo ultimatum dell'università.

Quindi la vede come una vendetta da parte dell'università per punire il suo attivismo…

Io non ho la certezza che sia così, ma è una possibilità concreta. In parte anche il mio istituto lo ammette, perché mi hanno dato un ammonimento informale dopo l'azione contro la Volkswagen, dicendomi: "Se tu fai ancora iniziative del genere, noi avviamo la procedura di licenziamento". Ovviamente, io ho continuato la mie azioni da attivista, ad esempio avviando le occupazioni degli aeroporti privati in giro per il mondo, quelli dedicati ai jet dei ricchi. Di sicuro è in corso un ricatto morale da parte dell'università, perché mi vogliono obbligare a fare qualcosa contro i miei principi – cioè prendere un aereo – minacciandomi con il licenziamento. Io voglio viaggiare nel modo più ecologico possibile e lo faccio da più di dieci anni.

Probabilmente perderò il mio posto di lavoro, ma così dimostrerò a tutte le persone disposte ad ascoltare il mio messaggio che stiamo affrontando un'emergenza climatica: in una situazione del genere, azioni folli e fuori dall'ordinario sono necessarie. Non bisogna cambiare rotta nel 2050, come dicono le istituzioni, ma dobbiamo farlo oggi.

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