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Il filo spinato che cresce nelle teste

La strada facile contro lo straniero è larga e comoda ma finisce in un viottolo scalcinato e cieco: alla fine saremo noi il filo spinato per l’intelligenza dei nostri figli. E continuando così forse non avranno nemmeno gli strumenti mica per perdonarci, no, anche solo per ascoltarci. Pensa che capolavoro.
A cura di Giulio Cavalli
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Un migrante "marchiato" con un numero - maggio 2015, Catania
Un migrante "marchiato" con un numero – maggio 2015, Catania

Provo a immaginare come sfoglieremo le foto di questi giorni, mi immagino tra una decina di anni davanti ai miei figli che mi chiederanno una spiegazione. Penso ai muri, ai bambini che strisciano sotto il filo spinato, al codice di identificazione marchiato a pennarello, ai cadaveri gonfi di acqua e di sale che si spiaggiano sulle coste come monumenti friabili della nostra codardia; penso alle parole da usare, se ci sono, se le abbiamo, dopo tutti questi mesi passati a nascondere il vocabolario dell'accoglienza come se fosse un libro proibito, una cedevolezza da deboli.

Perché dovremmo dare delle spiegazioni. Ci dovremo giustificare dell'olocausto meglio servito di sempre dove, con il naso appena fuori dal livello della paura inflitta, stiamo in punta di piedi come i bambini che sanno nuotare ma non ne hanno voglia, ché tanto basta allungarsi un po' per rimanere a galla e di sicuro poi ci perdoneremo, racconteremo di non avere saputo abbastanza, di avere il diritto alla difesa dall'invasione anche se il "barbaro" in questo caso è la nostra resa al cattivismo: diremo che è stato un tempo difficile cedendo ancora ai nostri problemi come lama per permettersi di affettare le fragilità degli altri.

Eppure resistere è un dovere. Resistere nel senso di continuare ad esistere di continuo di fronte ad uno sterminio che basta dosare attentamente tra le notizie del giorno per farlo apparire un caso, un semplice destino, un'epoca inevitabile. Qualche mese fa mi chiedevo dove fossero tutti i buoni quando non andavano in stazione a dare una mano o un pezzo di pane: ci sono, resistono, forse atterriti dal fragore dei vigliacchi ma continuano a fare, ad accogliere, a ritagliarsi uno spazio di resistenza.

Resistenza, sì. Perché è una resistenza ad un modo che ci vorrebbero convincere che sia giustificabile: normalizzare l'orrore è l'amnistia più veloce per la propria coscienza. Così i migranti diventano gli uomini neri, numeri da burocrazia europea, una felpa da sfoggiare in un comizio e i bordi di una storia più importante che pretendiamo di essere noi. "Pensiamo a noi", dicono le belve coltivate ad ignoranza e bile. "Pensiamo prima a noi" ripetono come un mantra assolutorio dicendolo nei bar, scrivendolo sui social, urlandolo in televisione: non lo vogliono sapere che un giorno gli "altri" potrebbero essere loro, i loro figli, per una mera questione geografica o di destino e che alla storia basta poco per trasformare un diritto in un privilegio o un dovere in un'elemosina da questuare.

Ma se la memoria ci ha insegnato qualcosa, se Primo Levi non è solo "un libro di scuola" allora dovremo essere ancora meglio di così, più forti dell'esser buoni e capaci di non diventare anche noi cattivi con i cattivi, prepotenti con gli ignoranti, stronzi con gli stronzi: restare umani significa anche conoscere e riconoscere i trucchi dei malpensanti (nel suo senso pieno, del "pensare male") e rifiutarli anche se ci sarebbero comodi. Qui non si tratta più di essere accoglienti, gentili o buoni: c'è un burrone tra chi vede sotto il filo spinato un figlio e chi vede un avversario di spazi, c'è un fosso tra chi crede nella dignità e chi ha deciso di non avere altra fede al di fuori di sé.

E visto che non basta sventolare la nostra storia di migranti forse sarebbe utile pensare che la Siria potrebbe diventare Palermo, che la Libia potrebbe essere in Lombardia e che il virus della disperazione sposterà i confini fino al cancello di casa nostra. Come già succede in questo tempo anafettivo dove la paura ci porta a respingere le urgenze: noi "italiani", noi "padani", noi "del centro", noi "del quartiere", noi "del condominio", noi che abbiamo la nostra "entrata" indipendente, noi che finiremo per temere il cugino più lontano, per salvare il figlio piuttosto che il fratellastro, noi che ci siamo già convinti che chi non mostra i denti soccomba. Una specie bestiale che è diventata di moda, à la page: e così essere buoni è un vezzo che non ci possiamo permettere se vogliamo proteggere i nostri figli.

Siamo tutti stranieri per qualcuno. Siamo stranieri del chirurgo che ci opera (ma sicuramente avrebbe qualcuno più "vicino" di noi da curare se dovesse scegliere), siamo stranieri in ogni negozio in cui non siamo clienti abituali, siamo stranieri dove calpestiamo una spiaggia per quindici giorni all'anno, siamo stranieri per gli insegnanti dei nostri figli (che avranno piuttosto figli loro), siamo stranieri ogni volta che sosteniamo un colloquio di lavoro senza parentele o raccomandazioni, siamo stranieri ogni volta che abbiamo un bisogno nuovo, siamo stranieri ogni volta che lottiamo con una fragilità non comune, siamo stranieri ogni volta che un problema nella vita ci precipita in un'altra categoria, quella dei disoccupati, dei malati, dei non autosufficienti o qualsiasi altra ancora.

La strada facile contro lo straniero è larga e comoda ma finisce in un viottolo scalcinato e cieco: alla fine saremo noi il filo spinato per l'intelligenza dei nostri figli. E continuando così forse non avranno nemmeno gli strumenti mica per perdonarci, no, anche solo per ascoltarci. Pensa che capolavoro.

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