Il pianto per la regina è (anche) il pianto per la perdita dell’impero razzista
Di Bruno Montesano
L’attuale sofferenza per la morte della regina Elisabetta II si intreccia con la malinconia per la perdita della grandezza imperiale. Così la professoressa Brenna Bhandar ci spiega l’intreccio tra dolore pubblico, proteste e retoriche istituzionali. Bhandar è una filosofa del diritto e di teoria postcoloniale e, dopo un lungo periodo di docenza a Londra, ora insegna a Vancouver (Canada) presso la Allard School of Law dell’Università della British Columbia. Parte della redazione della rivista di Radical Philosophy, ha scritto e curato vari volumi e articoli sul rapporto tra diritto di proprietà e oppressione razziale. Ci siamo incontrati per discutere della morte della regina Elisabetta in rapporto alle responsabilità dell’impero britannico nella schiavitù, nel saccheggio di risorse e nella riproduzione di un discorso nazionalista con forti connotati razziali. La discussione che segue verte sulla storia dell’edificazione – e delle possibilità di contestazione – di un vero e proprio“capitalismo razziale”, un sistema economico che frattura la classe operaia sulla linea della razza e utilizza la discriminazione per costruire un sistema di dominio originale.
Re e regine avevano più potere di Elisabetta. E papa Francesco – che è recentemente andato in Canada a chiedere scusa per gli omicidi di bambini indigeni nei collegi gestiti dalla Chiesa Cattolica – similmente, non può essere considerato il diretto responsabile di quanto accaduto nei collegi canadesi. E cionondimeno Francesco si è scusato. Perché la Corona inglese non ha fatto nulla di simile – con la parziale eccezione dell’allora principe Carlo, che, nel novembre 2021, nelle Barbados si è ‘scusato’ per il commercio di schiavi nelle colonie?
Papa Francesco ha porto le tanto a lungo attese scuse ai sopravvissuti del sistema delle Scuole Residenziali canadesi. Queste scuole erano istituite dal governo canadese e amministrate dalle chiese cattoliche, che avevano il compito di eliminare le lingue, le pratiche culturali, i sistemi di credenze, le strutture di parentela e famiglia indigene. Sostanzialmente, l’obiettivo era quello di spezzare il loro legame con le proprie terre. I bambini indigeni hanno sofferto di abusi di ogni tipo, sia sessuali sia di altra natura. E come mostrano i ritrovamenti delle fosse comuni – dando una prova “tangibile” a quanto le First Nations hanno sempre sostenuto e affermato – hanno subito forme di violenza letale. Il fatto che ci sia voluto così tanto tempo affinché la Chiesa cattolica si scusasse è quanto meno colpevole. Bisognerebbe inoltre chiedersi quale sia il valore delle scuse. Chiaramente, a livello simbolico, per alcune popolazioni indigene quanto avvenuto potrebbe essere stato importante. D’altro canto, in termini di restituzioni materiali, il governo canadese ha esonerato 48 chiese cattoliche dall’impegno a pagare 25 milioni di dollari alle comunità indigene dopo il raggiungimento nel 2006 dello storico Accordo Transattivo sulle Scuole Residenziali. Pur riconoscendo che dei pagamenti non saranno, e non potrebbero mai, essere sufficienti rispetto alla violenza inflitta alle popolazioni indigene in quei collegi, e alle sua perdurante eredità, non di meno alle chiese cattoliche è stato permesso di farla franca e non pagare.
Rispetto all’altra questione. Direi che si tratta di un problema relativo alla responsabilità più che alla diretta colpevolezza. Il papa – così come lo fu la regina Elisabetta – è al vertice di un’istituzione che ha un enorme potere e ha avuto un ruolo molto rilevante nella colonizzazione e nel sistema schiavistico. Essendo delle figure centrali potrebbero assumersi la responsabilità per quanto avvenuto nel passato. Il principe Carlo infatti non si è scusato per la schiavitù, ma ha espresso “il suo dolore”. Più che una questione di scuse e perdoni, direi che il tema sono le riparazioni.
Elisabetta ebbe il ruolo di regina durante la repressione di molti movimenti anticoloniali ma, al contempo, è stata rappresentata nel discorso pubblico come “non contraria” ad essi. Posto che il Regno Unito è una monarchia costituzionale, fino a che punto la regina Elisabetta può essere considerata responsabile?
È una questione complessa, su cui bisogna riflettere. Da un lato, il ruolo della regina Elisabetta II come capo dello stato ha significato, abbastanza esplicitamente, che lei si sarebbe astenuta dall’interferenza nelle questioni politiche. A differenza di molti regnanti dei periodi precedenti, il suo ruolo come capo dello stato e della Chiesa è stato spesso spiegato in termini di “figura di rappresentanza”. Ossia di una posizione dotata di potere e status, che svolge un ruolo di rappresentanza di un’istituzione, di uno stato nazione e di una forma di governo che evolve nei secoli. Dall’altro lato, la regina fu la diretta beneficiaria dei frutti delle conquiste. Le sue enormi proprietà e la ricchezza trasmessa tra generazioni di sovrani sono state realizzate attraverso colonialismo e schiavitù, oltre che tramite lo sfruttamento della classe operaia britannica. L’appena nominato Re Carlo ha lasciato in eredità al principe William l’insieme delle sue proprietà fondiarie raccolte sotto il ducato del Cornwell. Questa tenuta fu stabilita oltre 600 anni fa e vale più di un miliardo di sterline. La monarchia esiste anche a causa della solida e largamente accettata credenza che loro – come gruppo familiare individuato attraverso la linea di sangue – siano stati scelti da Dio per regnare sui propri sudditi. Trovo bizzarro che i sostenitori della monarchia siano ancora legati a questo sistema di valori e idee, che, fondamentalmente, tutelano un nucleo feudale all’interno di una democrazia parlamentare.
Spostiamoci sull’intersezione tra razza, genere e classe. Secondo il professore Subir Sinha, la classe operaia bianca (e non solo) – tramite il consumismo e le aspirazioni borghesi di alcune donne – nutre un profondo rispetto per la regina e la monarchia. Sinha ha sostenuto che anche tra le popolazioni precedentemente colonizzate questa visione abbia una certa presa, e diverse inchieste e ricerche lo confermano. Cosa ne pensa?
Penso che questa sia una particolare visione del salario piscologico inglese [il trattamento preferenziale della maggioranza razziale da parte delle istituzioni e nella società, ovvero un’integrazione simbolica e materiale al salario monetario, secondo la definizione fornita dal sociologo afroamericano W.E.B. Du Bois ndr]. Ma attenzione: non si tratta solo della classe operaia bianca ma della classe operaia multirazziale – perché questa è la realtà della classe operaia britannica –, per la quale l’attaccamento alla gerarchia di classe feudale fornisce un senso di superiorità relativa rispetto a chi non fa parte della comunità nazionale. Nel Regno Unito, che è un regime di colonialismo d’insediamento bianco, i termini dell’inclusione e dell’appartenenza si basano sull’accettazione e la celebrazione delle forme dominanti di nazionalismo. In Canada, l’inclusione nel corpo politico dei migranti e dei rifugiati razzializzati spesso significa accettare e essere attivi partecipanti nella normalizzazione del colonialismo d’insediamento.
Gli irlandesi furono tra primi soggetti razzializzati, come sostiene tra gli altri, Cedric J. Robinson. Ma ora, in tempi di crescente razzismo su scala globale, il governo Truss ha nominato come Cancelliere, ossia come Ministro dell’Economia, un politico nero, Kwasi Kwarteng. In Italia, solitamente si fa fatica a comprendere la dimensione sociale della “bianchezza”, ovvero il fatto che questa sia una costruzione e un rapporto sociale e non un’“oggettiva” qualità della pigmentazione della pelle. Fino a che punto la storia dell’impero britannico si intreccia con quella della bianchezza?
Esatto, la bianchezza è un rapporto sociale. Non penso che la forza dei sentimenti a cui assistiamo nel Regno Unito e altrove rispetto alla morte della regina possano essere separati dal carattere razziale del nazionalismo britannico. Se la regina ha rappresentato il Regno Unito e la storia britannica per più di 70 anni possiamo capire come questo senso di perdita espresso così drammaticamente sia legato a quella che Paul Gilroy ha chiamato “malinconia postcoloniale”. In questo senso, l’attuale perdita (la morte della sovrana) si intreccia con la malinconia per una grandezza del passato immaginata. Forse questa malinconia – così profondamente mobilitata in forma nazionalista nella campagna referendaria sulla Brexit – in parte produce ricorsivamente questa manifestazione di dolore. Ma ciò che si piange, ancora una volta, è la perdita dell’Impero. Ricordiamo inoltre che questo fenomeno avviene in un periodo di mobilitazioni molto significative come quella per la decolonizzazione dei curricula di storia o come l’abbattimento della statua dello schiavista Edward Colston a Bristol nel 2020, nel mezzo delle proteste di Black Lives Matter e di altri atti di resistenza e rifiuto contro la narrazione dominante della storia britannica.