(immagine di repertorio)
Era diretto in Italia, non a Betlemme.
Era su un gommone malmesso senza giubbotto di salvataggio, non al caldo di una capanna tra il bue e l’asinello.
Non è nato la notte di Natale, ma è morto annegato nelle acque gelide del Mar Egeo.
Era un bambino, un neonato. E se n’è andato assieme ad altre ventisei persone, tra cui forse anche i suoi genitori.
Ok, ora che lo avete – che lo abbiamo – letto, possiamo tornare a festeggiare il Natale insieme ai nostri cari, al caldo delle nostre case, tra regali e cibo a volontà.
E possiamo pure tornare a lamentarci del Covid, della quarantena, della nostra normalità violata.
Possiamo far finta che non sia successo niente, e dimenticarci di quel bambino e della sua vita spezzata alla ricerca della sopravvivenza.
Possiamo far finta, ma in quel bambino c’è lo spirito di tutti i Natali, passati presenti e futuri, e tutta la nostra ipocrisia, e tutta la nostra falsa coscienza.
Perché quel bambino veniva da terre che abbiamo abbandonato al loro destino.
Perché si sarebbe salvato se non avessimo delegato la sua salvezza a trafficanti senza scrupoli, o a dittatori spietati che paghiamo fiori di miliardi l’anno per fare i carcerieri dei disperati, in Turchia come in Libia.
Perché parlare di corridoi umanitari, nel cristianissimo e civilissimo occidente sembra essere la peggior bestemmia.
Perché lo sappiamo benissimo, nel cristianissimo e civilissimo occidente, che la sola parola “accogliere” fa perdere le elezioni a qualunque politico la pronunci.
Oggi quando andremo a messa coi nostri vestiti migliori, quando spezzeremo il nostro pane migliore e berremo il migliore tra i vini, quando ci scambieremo regali costosi, almeno ricordiamoci di quel bambino, anche solo per un secondo. E ricordiamoci che è lui che paga il prezzo del nostro benessere. Che è con lui che abbiamo deciso di non condividere quel che abbiamo.
Che questo sacrificio, anche solo per un secondo, ci possa rendere migliori, è il miglior augurio che possiamo farci.