Il fuoco di fila non si placa. Non passa giorno, ormai, senza che sui giornali appaia qualche articolo critico contro i neo-eletti, preferibilmente pentastellati, colpevoli di essere senza titoli di studio, senza esperienza pregressa, senza professionalità di grido, senza contratti stabili e blindati o senza adeguata estrazione sociale. Rispetto agli esordi parlamentari, il Movimento 5 Stelle ha accresciuto notevolmente il proprio consenso elettorale, arrivando a essere il primo partito d'Italia con il 32% dei voti. Dal giorno successivo alle elezioni del 4 marzo, i partiti risultati "perdenti" (leggi Partito Democratico, ndr) hanno iniziato a perculare, sputtanare e deridere i nuovi eletti, considerati non abbastanza all'altezza dell'istituzione che sono stati chiamati a rappresentare. E uno faceva lo steward allo stadio San Paolo e non s'è mai laureato, l'altro ha la terza media e l'altro ancora prende appunti in Aula perché non conosce la macchina parlamentare (che ridere, davvero, mi fa male la pancia).
Intanto, gli inetti hanno sbancato alle elezioni e la sinistra, anziché cercare di capire e analizzare in motivi per cui non è più in grado, secondo la percezione dell'elettorato, di rappresentare una grandissima fetta di ex elettori, preferisce giocare al tiro al piccione e mettere alla berlina quelli che, senza timor di smentita, sono i vincitori delle ultime elezioni.
Inutile rifarsi ai principi sanciti dalla Costituzione italiana – i quali non prevedono né impongono alcun titolo di studio minimo né per fare il parlamentare né per fare il ministro o ricoprire altri ruoli politici apicali – e poi farne carta straccia quando invece arriva il momento di attaccare l'avversario. Se solo pochi anni fa, il Partito Democratico ha difeso strenuamente la nomina a ministri di politici come Andrea Orlando, Beatrice Lorenzin e Valeria Fedeli, criticati da chi sosteneva non avessero adeguati titoli di studio per ricoprire il ruolo in quanto semplici "diplomati", è abbastanza miope abdicare a un principio che si riteneva giusto al solo scopo di restituire pan per focaccia ai 5 Stelle. O il libero accesso alle istituzioni senza distinzione di censo o titolo di studio è un valore oppure non lo è, non può essere un baluardo di civiltà solo quando serve a difendere le proprie scelte politiche ed essere repentinamente abbandonato quando invece si staglia all'orizzonte l'occasione di bastonare l'avversario incolto. "Ma hanno iniziato loro" è la scusa più gettonata dei dem, che quasi sembra di assistere a una lite tra bambini delle elementari più che a un dibattito politico tra parti avverse.
La presenza di ministri e parlamentari senza "adeguati" titoli di studio è una costante in Italia, sin dal 1946, non è certo una novità. Per fare qualche esempio bipartisan e recente: Massimo D'Alema non è laureato, Matteo Salvini nemmeno, Umberto Bossi finse addirittura di esserlo ingannando la sua famiglia con una finta festa di laurea, Giorgia Meloni ha un diploma di scuola alberghiera, il ministro Poletti è un tecnico agrario, il ministro Orlando ha una maturità scientifica, il ministro Lorenzin una maturità classica. E poi, per finire, una chicca: l'ex ministro Scajola si è laureato alla veneranda età di 53 anni, dopo aver abbandonato gli studi per qualche decennio perché intenzionato a fare carriera politica.
I grillini inesperienti, dunque, non sono né i primi né saranno gli ultimi onorevoli eletti nonostante l'assenza di diplomi o lauree. La Repubblica Italiana ha visto assurgere a ruoli politici apicali operai, braccianti agricoli, studenti che avevano abbandonato gli studi universitari, elettricisti e chi più ne ha più ne metta. La carta non sempre canta e giudicare un politico per il solo titolo di studio è abbastanza miope, giudicarlo per i fatti sarebbe meglio, altrimenti è solo meschino classismo.