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“Il medico mi disse che in ospedale non potevo abortire, ma se pagavo lo avrebbe fatto privatamente”

Cristina Sica è una donna che dieci anni fa è dovuta andare in Francia per un aborto terapeutico. Oggi aiuta chi si trova nella sua situazione: “Nessuna deve più stare sveglia la notte ad aspettare risposte che non arrivano”.
A cura di Natascia Grbic
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Se avete avuto difficoltà ad accedere all'interruzione di gravidanza scrivete a segnalazioni@fanpage.it. Daremo voce alle vostre storie.

"Quando ho scoperto che il feto aveva una malattia genetica rara ho deciso di interrompere la gravidanza. Ero però oltre le ventidue settimane, in Italia non era più permesso. Paradossalmente, se avessi voluto abortire in maniera illegale avrei potuto farlo: me lo ha proposto un medico in ospedale, dicendo che lì non poteva fare nulla, ma se lo avessi pagato lo avrebbe fatto lui privatamente". Cristina Sica è oggi una donna di 45 anni. Vive a Rho e ha deciso di rendere pubblico il suo nome e il suo cognome per un motivo ben preciso. "Non auguro a nessuna donna di vivere quello che ho passato io. I giorni con l'ansia, senza dormire, il non sapere come fare per uscire da quella situazione. Da anni ho reso pubblica la mia storia, in modo da poter essere contattata e fornire indicazioni, a chi ha avuto il mio stesso problema, su come e dove interrompere la gravidanza. Per questo ho fondato anche un'associazione, Casa Azul – La casa dei diritti, per sensibilizzare e aiutare sul tema".

La storia di Cristina non è recente, è avvenuta dieci anni fa. Ma è indicativa di come le donne, anche quelle che sono costrette a interrompere la gravidanza, non siano minimante accompagnate e supportate in questa decisione, anche quando questa mette a repentaglio la vita della gestante. In Italia il limite per l'aborto terapeutico è a ventidue settimane di gravidanza. Quando Cristina ha scoperto che il feto aveva una rara malattia genetica, aveva superato quel limite da tre giorni. Come lei, tantissime donne hanno vissuto questa situazione. Alcune sono state costrette a portare avanti la gravidanza, con i bambini morti alla nascita, poco dopo o costretti a una vita di sofferenze. Altre sono ricorse all'aborto illegale (come è stato anche proposto a lei), mentre altre sono andate all'estero. Situazioni drammatiche, rese ancora più devastanti dal fatto che non c'è nessuno, in questi casi, a fornire supporto alle famiglie, abbandonate a se stesse.

"Partiamo dal principio: la mia era una gravidanza voluta, io e il mio compagno l'abbiamo cercata per due anni. Quando sono rimasta incinta è stato bellissimo, ero pazza di gioia per questo bambino che volevamo da tanto. Tutto è andato bene fino a quando non ho fatto la morfologica di secondo livello e abbiamo scoperto che il feto aveva una malattia genetica molto rara. Se il bambino fosse nato, sarebbe stato un vegetale a vita. Io e il mio compagno abbiamo quindi deciso di interrompere la gravidanza, ma non si poteva fare, ero oltre le ventidue settimane ed era passato il termine per l'aborto terapeutico in Italia. È qui che mi sono resa conto di essere circondata da obiettori di coscienza: la mia ginecologa mi ha detto che le dispiaceva, ma che non si poteva fare niente. Anzi, mi ha consigliato di portare a termine la gravidanza e lasciare poi il bambino in ospedale senza riconoscerlo. Una cosa da pazzi, ma avete idea di cosa vuol dire arrivare al nono mese di gravidanza in quello stato? Mi sono trovata quindi in una situazione terribile, incinta con nessuna possibilità che il feto stesso bene, e con nessuno che mi diceva cosa avrei potuto fare".

Succede però una cosa paradossale: a Cristina un medico dice che il modo di abortire c'è. Bastava andare nella clinica privata dove lavorava, pagare, e avrebbe potuto interromperla.

"Non volevo morire, non mi sono fidata, tengo alla mia salute e mi sono rifiutata di accettare un accordo del genere – spiega – Un altro medico ancora mi ha allungato un biglietto in uno stanzino come se mi stesse dando della droga, c'era il numero di un medico a Tirana cui avrei potuto rivolgermi. L'ho chiamato, lui era molto scocciato e dopo mille reticenze mi ha detto ‘si, lo facciamo ma non lo devi dire a nessuno', e poi ha cominciato a parlare di soldi. Ho chiuso la telefonata perché in modo così losco non mi interessava. Ho cominciato a cercare informazioni su internet completamente da sola: calcolate che era dieci anni fa, non è semplice oggi, figuratevi allora. Sono finita su un blog dove ho letto la storia di una donna che aveva avuto la mia stessa situazione, ed era riuscita ad abortire all'estero, a Nizza. Ho chiamato e mi hanno indirizzato in un ospedale a Parigi. Attenzione, perché qui bisogna sottolineare un dettaglio importante: nel frattempo erano passate altre due settimane. Non dormivo, non mangiavo, ero in uno stato d'ansia costante. Le notti io e il mio compagno le passavamo sul divano, il letto era intatto. Quando da Parigi mi hanno chiesto di inviare la documentazione relativa allo stato del feto, ho sperato finalmente di poter chiudere tutto. Dovevano ovviamente fare le dovute verifiche e vedere effettivamente quanto grave fosse la situazione. Dopo poco mi hanno chiamata, confermandomi che avrei potuto recarmi lì per interrompere la gravidanza".

"A Parigi ho pianto per quanto sono stata trattata bene. Mi hanno ricoverata in un reparto lontana dalle partorienti, sono stati tutti gentilissimi, si sono presi cura di me in modo così premuroso che mi sono messa a piangere dalla commozione. Appena hanno indotto il parto mi hanno fatto l'anestesia, in modo da non farmi provare dolore. Mi hanno chiesto se volevo vedere il bambino e se volevo portarlo in Italia per la sepoltura. Sono stata trattata però così bene che ho deciso di seppellirlo in Francia, in un cimitero dedicato".

Sono passati anni, ma la rabbia per quanto accaduto è rimasta. "Sono nera per quello che mi hanno fatto passare, non me lo posso dimenticare. La rabbia è rimasta lì, intatta. Perché hanno dovuto rendere tutto ancora più complicato, sofferente, perché mi hanno dovuto far sentire così inadeguata per la scelta che ho preso".

Da allora Cristina cerca di aiutare le donne che si trovano nella sua stessa situazione. "Grazie alla storia di quella donna su internet ho capito cosa fare, per questo poi ho condiviso anche la mia. Capita che una o due volte l'anno mi arrivi una mail di qualche donna che mi chiede informazioni, e sono felice di dargliele. So cosa vuol dire rimanere sveglia la notte facendo continuamente refresh alla mail, aspettando una risposta che non arriva. La mia è una storia meno rara di quello che pensiamo. Non è che se ci ignorano non esistiamo. Alle altre donne consiglio di informarsi sempre se il loro medico sia obiettore di coscienza o meno: sappiate che se lo è non vi aiuterà mai nel caso ci fossero problemi. È il vostro corpo, siete voi che dovete decidere se interrompere una gravidanza o meno. Nessun altro".

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