Il linguaggio di Giulio Andreotti: un’analisi
Giulio Andreotti ha segnato la vita politica italiana anche con la sua retorica. In un certo senso è stato la manifestazione più esplicita della retorica del potere nel secondo Novecento italiano, quella democristiana, tramontata di colpo con il ventennio berlusconiano: ironica, fredda, allusiva, in altre parole, al contempo assente e pure presente, come il potere che ha esercitato. Nel suo ritratto cinematografico, Paolo Sorrentino, definendolo “equipaggiato come Dio”, mostra tutta l’ambiguità radicale del potere andreottiano, potere ‘teologico’ proprio perché basato sull’assenza o ancor peggio, sulla silenziosa presenza.
La famosa frase “Il potere logora chi non ce l’ha”, pronunciata da Talleyrand, ma attribuita anche a lui, è significativa in questo senso: è una frase che definisce il potere per negazione, ponendo l’accento su chi lo subisce e non su chi lo esercita e, quindi, trasformando di riflesso l’uomo di potere che era Andreotti in una casella vuota, in un’assenza fondativa, una specie di vuoto che, proprio come Dio, proprio per la sua discrezione, per la sua presenza-assenza, regge tutto e, all’occasione, logora ciò che è da lui più distante.
Questo procedimento litotico è del resto alla base di altre frasi celebri: “so di essere di media statura, ma non vedo giganti intorno a me” ancora una volta, sottilmente, ironicamente, descrive se stesso per negazione, e se ciò che risalta più all’ascolto è la frase di ironia salace “non vedo giganti intorno a me” , la parte più importante dell’aforisma è tuttavia la prima: “so di essere di media statura”. Infatti Andreotti si sottrae alla definizione del suo potere (è infatti una frase che lascia trasparire un giudizio sui rapporti di forza col prossimo) descrivendosi con un tratto fisico mediocre, semplice, che fa scomparire la sua immagine in una figura indistinta, per poi trasformare di colpo, nella seconda parte della frase, questo tratto fisico in un’immagine di forze persone.
Si tratta sempre di battute innocue, ovviamente, battute dette sul crinale vertiginosamente ambiguo della chiacchiera mondana e del comando politico, in contesti in cui la garbatezza, la mitezza dell’uomo, trovavano il loro rovescio nella grande capacità di penetrazione, la grande capacità di influenza sulla vita delle persone.
Ed è quindi proprio il suo modo di parlare aforistico, dall’ambiguità tagliente, che rivela meglio di qualsiasi altro tratto andreottiano, come egli sia “sopravvissuto” fino ad oggi in un cono d’ombra ambiguo, in uno spazio vuoto fra le parole, inserendo l’immagine di se stesso in quanto di più indeterminabile ci sia, la linea di demarcazione fra detto e non detto.
La politica di oggi non è più così, ovviamente, perché è un potere esposto, manifesto, più brutale e sicuramente ancor meno sofisticato, fatto di immagini forti, dal significato chiaro quanto spesso finto, vuoto. È una politica ancora più prossima alla nuda vita. I punti di forza dei politici sembrano essere, al contrario, la cruda manifestazione di un’immagine senza mediazioni, in cui ci si possa identificare, affinché chi si identifica ne possa essere manipolato.
Il prezzo di questo nuovo potere è la costante ricerca di nuove forme di immunità, è insomma la più evidente conseguenza del crollo del grande apparato immunitario e teologico del potere di cui Andreotti era stato espressione, per dare luogo a una sorta di nuovo paganesimo politico, quello degli ultimi vent’anni, che Andreotti ha attraversato con il consueto, curiale, riserbo.