Roberto Di Bella è un giudice contro la ‘ndrangheta, uno di quelli che le mafie le conosce bene perché gli sfilano tutti i giorni davanti alla scrivania: presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria già da tempo (in coordinamento con la Procura e la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio) cominciato a togliere la patria potestà ai boss mafiosi per riuscire a "salvare" i loro figli da un ineluttabile futuro criminale affidandoli a terzi. Garantire un futuro ai minori che si ritrovano l'intera famiglia coinvolta in dinamiche ndranghetiste è, secondo Di Bella, l'unico modo per interrompere una mafiosità che soprattuto nella ‘ndrangheta è (anche) un fatto di sangue.
Sul giudice da tempo piovono gli strali dei boss che in virtù di un loro distorto "senso dell'onore" vedono nella sua opera un "accanimento" che dovrà pagare caro ma ora, finalmente, arrivano anche i primi ringraziamenti. E sono ringraziamenti che contano: ""Scrivo da padre, un padre che soffre per il proprio figlio, per tutta la situazione familiare. – ha scritto un boss mafioso a Di Lello – e sono d'accordo con Lei, solo allontanandolo da questo ambiente il mio bambino avrà un futuro migliore. Se avessi avuto io le stesse possibilità forse non sarei dove sono ora. Decida Lei e stia tranquillo che, visto il mio passato e presente, non farei mai qualcosa che possa influire o danneggiare la vita di mio figlio. Io voglio soltanto il suo bene e mi impegnerò con tutte le mie forze a rispettare le prescrizioni che mi impartirà per il futuro".
Poi c'è chi dopo essersi inizialmente opposta alle prescrizioni del tribunale ora ne riconosce la validità: ""Non ritornerò mai più in Calabria" scrive una una madre che era stata allontanata con la figlia proprio da Di Bella dopo l'arresto e la condanna per mafia di suo marito. E anche i figli dati in adozione a altre famiglie dopo le difficoltà (e in alcuni casi le disperazioni) iniziali ora riconoscono che l'allontanamento forzato dalle proprie famiglie è l'unica soluzione percorribile per uscire dal circolo mafioso.
Eppure, al di là di ciò che dicono gli uomini del clan (e certa stampa) quella di Roberto Di Bella non è una fissazione ma semplice applicazione della legge: secondo il Codice Penale nei casi in cui "sia valutato un concreto pregiudizio, riconducibile al metodo educativo mafioso, all’integrità psicofisica dei minori" è possibile procedere all'allontanamento dei minori. La ‘ndrangheta poi ha la caratteristica di essere ulteriormente cementata dai rapporti di parentela che a differenza di Cosa Nostra rendono molto più difficile il pentimento dei suoi membri: collaborare con la giustizia, molto spesso, significa assumersi la responsabilità di denunciare un famigliare stretto. Le operazioni antimafia di questi anni ci dicono che anche le donne spesso hanno un ruolo fondamentale nell'indottrinamento dei figli: spezzare questa linea rossa (che da decenni vede ripetersi gli stessi cognomi, di padre in figlio, nel novero degli arresti) è un tassello fondamentale.
Lui, il giudice Di Bella, definisce quello di Reggio "Un esperimento ancora artigianale, che vive molto sull’iniziativa dei singoli e sul volontariato" e lamenta la mancanza di "un appoggio istituzionale in risorse, personale, circuiti educativi e soprattutto sbocchi professionali". Il New York Times qualche giorno fa sulle sue pagine ha raccontato questa piccola storia di resistenza; chissà che non sia ora che ce ne accorgiamo anche qui.