Violenze orribili e certo da condannare e da punire senza se e senza ma che tuttavia sono oggi impiegate in modo apotropaico, per farci credere che esse siano le sole: e per nascondere ideologicamente il fatto che la violenza è l’essenza stessa della società di mercato, fondata sul rapporto di servitù e signoria, sullo sfruttamento e sull’immiserimento di sempre più persone a vantaggio di poche. Sia chiaro, allora: condanniamo la violenza, ma condanniamola in ogni sua forma, a partire dalla violenza economica su cui si fonda la società di mercato.
Lo scrivente è, naturalmente, contro la violenza. E, tuttavia, il nostro è il tempo della violenza pienamente realizzata, il tempo della violenza economica e della dittatura silenziosa dei mercati. Come non mi stancherò di ripetere, l’integralismo dell’economia riesce a ottenere, con le leggi anonime e impersonali del mercato, ciò che le dittature tradizionali potevano raggiungere solo mediante l’uso delle armi e dei carri armati. I tradizionali assetti dittatoriali, se non altro, finivano sempre per alimentare forme di dissenso e di opposizione: erano pericolosi e, insieme, sempre in pericolo, in quanto l’“estetica dei supplizi” (Foucault) e la violenza visibile suscitavano ostilità su più fronti.
Dal canto suo, il totalitarismo del mercato, anche in forza della sua impersonalità anonima, impedisce preventivamente la costituzione di una disobbedienza operativa, poiché presenta i propri crimini come sistemici, necessitati, ineluttabili, dovuti alle sacre leggi dell’economia feticizzata: come se, di fatto, non fossero concretamente prodotti da nessuno e, di conseguenza, nessuno potesse porvi rimedio.
E mentre questa violenza indecente che non mostra il proprio volto inanella un trionfo dopo l’altro, la scena mediatica e intellettuale è occupata dalle figure dei nuovi Soloni, che denunciano la violenza soggettiva per accettare sic et simpliciter quella sistemica, condannano le forme dispotiche del passato perché restino invisibili quelle del presente, dell’economia e della circolazione delle merci: pontificano sulla questione morale perché l’attenzione non torni a concentrarsi su quella sociale, e condannano ogni forma di violenza che non sia quella economica. Così si spiega l’ideologia del femminicidio, la cui funzione è – lo dico nel modo più semplice e diretto – distogliere l’attenzione dalla violenza economica per spostarla su altre forme di violenza.
Accade così che la di per sé giusta denuncia dell’omofobia o del femminicidio è oggi impiegata puntualmente per distogliere l’attenzione dalla violenza sistemica della società di mercato. La violenza – ripete l’assordante ideologia che pervade capillarmente il regno mediatico – è ovunque fuorché nel mondo di cui siamo abitatori, signoreggiato com’è dalle divinità olimpiche di “Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham” (Marx).
In questo modo, complice la gran cassa del pensiero unico dominante, passa l’idea secondo cui la società di per sé non è violenta e la sola violenza è quella ai danni delle donne: occorre reagire a questa nuova, imponente ideologia e inserire la denuncia incondizionata di ogni forma di violenza (sulle donne come sui bambini, sugli animali come sull’ambiente) in una più ampia pratica attiva di opposizione alle prosa reificante del capitale.