I risultati delle elezioni politiche sono ormai chiari: a trionfare come (non) partito è ancora una volta il Movimento 5 stelle, anche se è la coalizione di destra a ottenere il maggior numero di consensi, con un 37% destinato ad aumentare, sommato come dovrebbe essere ai seggi ottenuti dai candidati nei collegi uninominali. La prospettiva di un governo di destra, ad esempio con Maroni presidente del Consiglio, non è poi così inverosimile, se accostata agli incontri tra Maroni e Mattarella (ma anche Napolitano), al suo rinunciare per non meglio precisate ragioni personali alle regionali lombarde, oltre alla circostanza di una coalizione di centrosinistra che ha portato in Parlamento deputati e senatori come Casini, Tabacci, Lorenzin, Cerno, che nel passato hanno sostenuto o hanno collaborato con Maroni (o, più in generale, con la destra). Più che alle previsioni, che per natura possono avverarsi ma anche no, è il caso però di guardare ai fatti, uno tra tutti il calo di consensi ottenuti dal Partito democratico, che non raggiunge nemmeno il 20% delle preferenze.
Matteo Renzi ha annunciato le dimissioni, o, meglio, l’apertura della fase congressuale, con un discorso in conferenza stampa, poi replicato, quasi con le stesse parole, in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook.
Dopo aver alluso alle possibilità di vittoria che il partito avrebbe avuto se avesse affrontato il confronto elettorale nel 2017, in contemporanea a Francia e Germania, Renzi ha presentato come paradigmatica la sconfitta di Marco Minniti, arrivato terzo al collegio uninominale di Pesaro dopo il candidato grillino Cecconi (coinvolto peraltro nello scandalo rimborsi) e la candidata di destra. Il segretario del Pd ha colto l’occasione per rivendicare l’operato del ministro degli Interni, definendo Minniti come il “ministro che ha risolto il problema dell’immigrazione in Italia”. Di come, a parere di chi scrive, i provvedimenti di Minniti abbiano all’opposto legittimato, invece di contrastare, la destra xenofoba, si è già detto e non è il caso di soffermarsi ulteriormente.
Matteo Renzi ha poi sostenuto “Noi siamo per la realtà, contro le fake news”. Il tema, affrontato in maniera critica e approfondita altrove, ha occupato i discorsi di Renzi e la comunicazione del partito durante questa campagna elettorale. Ma il problema fake-news, che un discutibile servizio della polizia postale mirava ad arginare, non è che una forma evidente di una più generale tendenza alla disinformazione, che riguarda la propaganda di tutti i partiti in lizza, Pd compreso. Una forma particolarmente infida di scorrettezza informativa, ad esempio, è il ricorso a fallacie logiche, ossia a errori di ragionamento, inconsci o sleali, che violano le regole del confronto argomentativo corretto.
Anche nel discorso di Renzi per l’analisi della sconfitta ne sono identificabili diverse: se ne segnalano quattro, le più evidenti.
1) Non sequitur
Nel parlare del deludente risultato del Pd, Renzi ricorda che chi ha vinto le elezioni non ha i numeri per governare, circostanza che dovrebbe far riflettere, dal momento che, secondo il segretario, "loro sono quelli che hanno detto No a un referendum che avrebbe agevolato la formazione di un governo, in questo passaggio". In questa convinzione espressa si può notare un ricorso al non sequitur, fallacia che consiste nell’affermazione di un erroneo rapporto di causalità, attribuendo a un effetto una causa a esso slegata. Il falso rapporto causa-effetto risiede nel sostenere che, in caso le riforme istituzionali fossero state confermate dal referendum, la formazione del governo sarebbe stata più agevole. Eppure, la consultazione referendaria riguardava una riforma molto vasta, che andava dalla modifica del bicameralismo perfetto ai rapporti Stato-Regioni, ma che non riformava le procedure di formazione dell’esecutivo, né cambiava il rapporto di fiducia con il Parlamento, se non assegnandone la titolarità alla sola Camera. Se il 4 dicembre 2016 avesse vinto il Sì, ora a votare la fiducia al nuovo governo sarebbero solo i deputati, ma la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri sarebbe spettata comunque a Mattarella, con le stesse procedure che si terranno nei prossimi giorni e con gli stessi problemi nell’identificare una compagine chiara cui affidare il mandato.
Se invece Renzi si riferiva all’Italicum, peraltro poi giudicato incostituzionale dalla Consulta, bisognerebbe ricordarsi che la legge elettorale non era sottoposta al vaglio popolare del referendum, che riguardava soltanto le modifiche costituzionali.
2) Cherry picking
Renzi si assume la responsabilità, a nome del partito, di non aver saputo comunicare le cose fatte, di non aver saputo spiegare il benessere che gli anni di governo avrebbero donato all’Italia, esemplificati nell’aumento del 4% del Pil, così come in un milione di posti di lavoro in più. Il cherry picking consiste nel “raccogliere ciliegie”, cioè proporre nel proprio discorso solo le parti di una statistica che confermano la propria tesi. L’aumento del Pil non può infatti tener conto della percezione di insicurezza sociale diffusa: secondo un’indagine di Eurobarometro, l’86% degli italiani ritiene che la situazione economica nazionale sia negativa, sensazione confermata dal dato di 4,5 milioni di persone in povertà assoluta. Il Pil, la cui importanza nella valutazione della ricchezza fu a suo tempo criticata anche da Bob Kennedy, rappresenta inoltre una grandezza aggregata e collettiva, che ignora la redistribuzione della ricchezza, quantificabile, ad esempio, attraverso l’indice di Gini, che misura appunto il livello di disparità nella distribuzione della ricchezza, drasticamente aumentato negli ultimi anni. Allo stesso modo, il vanto dell’aumento di posti di lavoro finisce per trascurare la loro progressiva precarizzazione.
3) Falsa dicotomia e 4) Argumentum ad passiones
Renzi si oppone al vento estremista, esprimendosi spesso con il dualismo tra “loro” e “noi”. Nel “loro”, con una generalizzazione indebita, si considerano Di Maio e Salvini, cioè tutto il M5S più -si presume- l’intera coalizione di centrodestra. Si tratta di una fallacia logica detta falsa dicotomia, cioè uno stratagemma retorico che riduce la realtà a due sole alternative: si crea così un bipolarismo non esistente nella realtà (Lega e M5S non hanno finora mostrato l’intenzione di allearsi per formare una compagine di governo). Al vento estremista sono inoltre attribuiti (non del tutto ingiustamente) atteggiamenti di odio, che si contrappongono a dichiarazioni di amore del Pd di Renzi al paese ("noi amiamo l’Italia"). Al di là dei precedenti storici del Popolo dell’Amore contro l’odio, questa scelta lessicale, unita ad altre abbondantemente presenti nel discorso ("Ragazzi il futuro tocca a noi, tornerà il futuro a sorriderci"), rappresentano un argumentum ad passiones, con cui si abdica al ragionamento logico per appellarsi a istinti emozionali.
Esclusa la prima fallacia, il non sequitur, il cui scardinamento logico è grave a prescindere dal suo autore, si potrebbe pensare che Matteo Renzi, in quanto segretario di un partito politico, così come i suoi avversari, possa (anzi debba) fare propaganda: la retorica è un elemento quasi necessario, o comunque almeno accettabile, nel dibattito politico. Il compito di analisi e disvelamento di queste fallacie, così come la riconduzione dei discorsi sentimentalistici al tracciato del ragionamento logico, dovrebbe spettare all’informazione. Il problema da porsi, allora, è quanto spazio abbiano (e si prendano) i giornalisti per godere del diritto di cronaca e per adempiere al correlato dovere di informare.
Al termine della conferenza stampa di ieri, come spesso accade, Renzi ha salutato e se n’è andato, senza lasciare il minimo spazio a eventuali domande. È questa, forse, una delle questioni che il Partito democratico dovrebbe porsi nell’analisi che, prima o poi, dovrà fare di questa sconfitta, magari alla luce di una considerazione di Danilo Dolci, che potrebbe portare Renzi, il Pd, ma la politica e la società più in generale, a passare finalmente a un confronto costruttivo, aperto e reciproco, che non ha bisogno di fake news né di fallacie logiche per comunicare.
Se ognuno al mondo sapesse distinguere il trasmettere dal comunicare, il mondo sarebbe diverso: occorre il coraggio, non solo intellettuale, di chiamare comunicazione soltanto il sistema in cui ogni partecipante coinforma e corrisponde.