Il disastro della diga del Vajont a 60 anni dalla tragedia: le cause della frana e chi fu condannato
Il disastro del Vajont avvenne esattamente 60 anni fa. Il 9 ottobre del 1963, nella zona delle Prealpi italiane situata al confine tra il Friuli-Venezia Giulia ed il Veneto, un gigantesco blocco di terra frana dal Monte Toc: 270 milioni di metri cubi di roccia si staccano dalle pareti della montagna, scivolano nel bacino artificiale ad una velocità di 90 km/h e generano due enormi onde, alte oltre 250 metri.
La prima raggiunge Casso ed Erto: risparmia i due paesini di montagna per pochissimo, ma spazza via alcune frazioni. La seconda, la più terribile, scavalca la diga per finire nella valle del Piave, verso ovest: travolge in pieno la cittadina di Longarone dopo 4 minuti. Perdono la vita circa 1920 persone, tra cui centinaia di bambini.
Una catastrofe di enormi proporzioni, ricordata ancora oggi come uno dei disastri maggiori nella storia recente dell'Italia.
Nonostante la forza dell'acqua, la diga del Vajont è rimasta intatta tanto da diventare col tempo luogo di visita, aperta al pubblico da circa 25 anni e attualmente gestita dall'Ente Parco delle Dolomiti.
Dove si trova la diga del Vajont
La diga si trova al confine tra il Friuli-Venezia Giulia ed il Veneto, nel comune di Erto e di Casso, in provincia di Pordenone, lungo il Vajont, un affluente del fiume Piave, che si getta nei pressi del piccolo comune di Longarone, in provincia di Belluno, dopo avere scavato una profonda gola, detta appunto ‘del Vajont', fra le più belle delle Alpi, tra il monte Toc e il monte Salta.
Oltre a Longarone, situato proprio allo sbocco della valle del Vajont, tantissimi erano i borghi presenti nell'area: Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino. Nella valle del Piave c'erano invece Pirago, Faè, Villanova, Rivalta, oltre a Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. Molti di questi oggi non esistono più.
Le polemiche sulla diga e i rischi legati alle possibili frane
A distanza di 60 anni pare evidente che la tragedia del Vajont sia da considerare un disastro annunciato: guidati da interessi economici e aziendali, i progettisti e i dirigenti dell’azienda elettrica S.A.D.E./E.N.E.L. costruirono la diga in un’area con gravi problemi geologici, nonostante la consapevolezza dei rischi e nel silenzio delle autorità di controllo.
Gli abitanti del posto, tra cui la giornalista Tina Merlin, denunciarono il pericolo fin dall’inizio – soprattutto i continui smottamenti e i terremoti dei mesi precedenti alla tragedia. Ma furono ignorati.
Il progetto della diga e il parere favorevole della SADE
Per capire come si è arrivati alla costruzione della diga bisogna andare all'inizio del secolo scorso, quando alcune società private intuiscono la possibilità di sfruttare in modo capillare le acque del bacino del Piave per produrre energia elettrica.
Nel 1929 la valle del Vajont viene ritenuta idonea per la realizzazione di un bacino idroelettrico per conto della S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità) di Venezia. In pochi anni il progetto è pronto, ma scoppia la Seconda Guerra Mondiale. Bisogna attendere il 1957 per l'inizio dei lavori, completati nel 1959.
Non poche furono le polemiche, anche e soprattutto considerando quanto era avvenuto alla diga del Lago di Pontesei nel marzo 1959: una frana del volume di circa 3 milioni di metri cubi si era staccata dalle falde del monte Castellin e dello Spiz, precipitando in pochissimi minuti e colmando parzialmente il lago.
Nonostante il bacino fosse alcuni metri al di sotto del pieno carico, quel cedimento aveva generato un'ondata che, dopo aver sormontato la diga, finendo per travolgere Arcangelo Tiziani, dipendente di un'impresa di costruzioni, che stava lavorando presso la centrale elettrica a valle della diga. Il cadavere del pover'uomo non fu mai ritrovato.
Una sorta di anticipazione del disastro del Vajont. La preoccupazione generale era manifestata nero su bianco dagli articoli di Tina Merlin. La giornalista de L'Unità puntava il dito contro lo strapotere della S.A.D.E. Da parte sua l'azienda l'accusava di diffondere notizie false per turbare l’ordine pubblico.
Per la realizzazione del “Grande Vajont” la stessa S.A.D.E. aveva peraltro obbligato l’espropriazione di molte delle case e dei terreni situati a Erto, ignorando le innumerevoli proteste dei residenti di Erto riuniti anche in un "comitato cittadino" nato proprio in opposizione a quella confisca.
Cosa è successo il 9 ottobre 1963: la frana e l'onda anomala
Nel 1960 inizia il collaudo della nuova costruzione con il riempimento del serbatoio. Ma già col primo invaso emerge una generale instabilità delle sponde del lago e soprattutto della sponda sinistra: il versante era infatti interessato da segni di movimenti quali alberi inclinati, crepe nel terreno e fenditure sui muri delle case; il 4 novembre 1960 si stacca una frana che finisce nel lago mentre si delinea, nella parte superiore, una importante frattura che andrà a rappresentare la futura nicchia di distacco della devastante frana di tre anni dopo.
Tutta una serie di campanelli d'allarme di quanto accaduto la sera del 9 ottobre 1963. Tutti ignorati. Sono le 22:39: una frana di oltre 270 milioni di metri cubi, con un fronte superiore ai due chilometri, una larghezza di almeno 500 metri ed una altezza di circa 250, precipita con una velocità stimata intorno ai 90 Km/h nel bacino artificiale che contiene un livello di acqua superiore a quello che era stato stabilito per sicurezza.
Una prima ondata raggiunge con violenza i piccoli paesini di montagna di Erto e Casso, situati sulla sponda opposta al Monte Toc, e distrugge la borgate di Fraseign, Spesse, Pineda, Prada, Marzana e S. Martino, asportando le solide costruzioni di pietra squadrata fino alle fondazioni; l’altra si riversa con ancora più violenza nella valle del Piave radendo al suolo il paese di Longarone ed alcuni villaggi vicini.
Quali furono le conseguenze del disastro del Vajont
L’acqua non risparmia nulla. Anche perché quando il Monte Toc frana solleva un’onda di 50 milioni di metri cubi con uno spostamento d’aria pari a quello creato dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. Molte delle vittime vengono ritrovate completamente nude, poiché i loro vestiti erano stati spazzati via dallo spostamento.
I morti sono quasi duemila: 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 in altri comuni. Vite intere cancellate nel tempo di soli quattro minuti.
Per mesi e mesi sul lago, che paurosamente continuava ad innalzarsi minacciando Erto e gli abitati risparmiati dall’ondata, galleggiano ogni tipo di macerie, assieme a fango e resti di animali in putrefazione.
I superstiti, soprattutto quelli provenienti dall'abitato di Casso ed Erto, vengono sfollati in diversi luoghi della pianura friulana e bellunese, dove saranno anche costruiti due nuovi abitati: Vajont vicino a Maniago in provincia di Pordenone, e Nuova Erto a Ponte nelle Alpi in provincia di Belluno.
Sopravvissuti quindi, ma annientati assieme a un territorio, una storia e una cultura che non hanno mai più riacquistato la loro fisionomia originaria.
Il processo per stabilire i colpevoli: chi è stato condannato
I responsabili di quella tragedia annunciata non sono stati neanche condannati tutti.
La causa penale cominciò nel 1968 con il processo di primo grado che si svolse peraltro a L’Aquila, lontano dalla sede del Tribunale di Belluno dove avrebbe dovuto svolgersi per evitare, come avevano richiesto i legali S.A.D.E (divenuta intanto proprietà dell’Ente Nazionale Energia Elettrica, E.N.E.L., dopo la nazionalizzazione delle aziende elettriche) di "turbare l’ordine pubblico e l’andamento regolare del processo".
In quella iniziale occasione furono rinviati a giudizio undici responsabili del caso Vajont: Francesco Sensidoni, Alberico Biadene, l'ingegner Augusto Ghetti, i membri della Commissione di collaudo Pietro Frosini, Francesco Penta e Luigi Greco (questi ultimi nel frattempo erano deceduti), Curzio Batini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore per i Lavori Pubblici, Almo Violin, ingegnere capo del Genio Civile di Belluno, Dino Tonini, capo dell’ufficio studi della SADE, Roberto Marin, direttore generale della SADE-ENEL, e il direttore dell'ufficio lavori al cantiere Mario Pancini, che si suicidò prima dell’inizio del processo.
La causa penale però si trascinò per oltre otto anni e si concluse con la sentenza di condanna per due soli imputati: Alberico Biadene (dipendente S.A.D.E.) e Francesco Sensidoni, il quale oltre ad aver fatto parte della Commissione di collaudo fu anche capo del servizio dighe al Ministero dei Lavori Pubblici. 5 anni per Biadene, tre anni e otto mesi per Francesco Sensidoni, in quanto responsabili del reato di inondazione – frana compresa – e omicidi. Sia Biadene che Sensidoni godranno di un condono di tre anni.
La diga del Vajont oggi: esiste ancora ma non viene usata
La diga del Vajont è stata l’unica costruzione a non subire danni dopo essere stata colpita dalla violenza dell’acqua: essa fu appena scalfita. Tuttavia oggi non viene utilizzata per la sua funzione originaria.
Ma sono ancora molti i visitatori che giungono nella zona di quel terribile dramma. La possono vedere, radicata e inamovibile, nello stesso punto nel quale fu costruita, un luogo che non sarà mai più lo stesso dopo quella notte di 60 anni fa.