Il 16 marzo 1978 gli uomini della scorta attendono il presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro per accompagnarlo alla Camera dei Deputati, dove sta per essere approvato il nuovo governo Andreotti. Quello pazientemente cucito dall'onorevole Moro è il primo governo democristiano votato – con buona pace di quanti, nella vecchia Democrazia Cristiana, temevano che sarebbe stata la prima pietra del ‘compromesso storico' – anche dai comunisti.
Via Fani, ore 9.02
Qualche minuto dopo le 9 l'onorevole esce dal portone e al civico 79 di via Forte Trionfale. In strada ci sono la 130 blu e un’alfetta. Il presidente esce dal portone, viene sorpreso dal suono sordo e agghiacciante di una sventagliata di proiettili. Capisce subito cosa sta succedendo: gli uomini della scorta Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Franceso Zizzi, sono morti crivellati di colpi. Un commando delle Brigate Rosse lo costringe a salire in auto. La notte della Repubblica iniziata con la Strage di Piazza Fontana è giunta a un momento storico delicato e decisivo: un esponente politico di spicco, il presidente della Democrazia Cristiana è stato sequestrato nel contesto di quella odiosa guerra di apparati chiamata "Strategia della tensione".
Il Tribunale del Popolo
La sera, dopo la strage di via Fani, viene approvato il nuovo governo DC con l'appoggio esterno dei comunisti. Bisogna attendere due giorni prima che il rapimento venga rivendicato. Le Brigate Rosse, il partito comunista combattente, annuncia l'inizio del "processo" allo statista Aldo Moro da parte del Tribunale del popolo. Come si comporterà il nuovo governo sostenuto anche dai comunisti? Tra comunicati delle BR, lettere del prigioniero Moro e appelli di "esponenti del mondo borghese" sui quotidiani vanno anche avanti le indagini dei magistrati, portando dapprima ad alcuni arresti e poi a un blitz in via Gradoli, a Roma, dove gli investigatori scoprono un covo dei terroristi. Un anonimo informatore, in realtà, aveva segnalato l'esistenza del rifugio mesi prima, solo che gli investigatori erano andati a cercare l'onorevole a Gradoli, in provincia di Viterbo. A nessuno era venuto in mente che potesse trattarsi di una strada della Capitale.
La linea dura
Il 20 aprile le Brigate Rosse diffondono il settimo comunicato che per la prima volta reca un ultimatum: in cambio del rilascio di Moro devono essere rimessi in libertà alcuni brigatisti detenuti: la scadenza è fissata d per due giorni dopo. Papa Paolo VI, il 22 aprile rivolge un appello pubblico pregando "in ginocchio" le Br di rilasciare il presidente della Dc. Senza condizioni, però. Neanche il santo padre, nonostante la sua amicizia personale con Moro, si espone affinché venga intavolata una trattativa. “Il Papa ha fatto pochino – commenta rassegnato dalla sua prigionia il prigioniero – forse ne avrà scrupolo”. Intanto i giornali pubblicano una dichiarazione di Eleonora Moro: "Mio marito non deve essere barattato in nessun caso". Una frase che però la signora Mora smentisce. Vera non lo è, ma così com'è stata pubblicata quella dichiarazione sembra il primo tassello di una dialettica del "non compromesso" che avrebbe caratterizzato la risposta del nuovo governo di cui lo statista era stato artefice.
Le lettere dalla prigione rossa
La famiglia Moro avanza pubblicamente la sua "ferma" richiesta che il partito "la propria disponibilità ad accettare le condizioni per il rilascio del suo presidente". Ma gli ex compagni di partito sono su tutt'altra lunghezza d'onda: disconoscono le richieste di Moro, che nelle lettere dalle sue prigioni sottolinea l'esigenza umanitaria di una trattativa. Emilio Taviani, il pioniere della linea dura, che dice: "Il Moro che parla dalla prigione del popolo non è il Moro che abbiamo conosciuto", sarà destinatario di una tagliente lettera del presidente della DC, che "dalla prigione del popolo" si rammarica di quella posizione, chiedendo all'ex collega di partito: "Vi è forse, nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e tedesca?". Il presidente si riferisce all'ingerenza di governi in cui servizi segreti pure avevano un ruolo nella strategia della tensione di quegli anni.
La condanna
Nel comunicato numero 8, mentre Moro tenta in ogni modo la strada della persuasione, sono le BR a dettare le condizioni del rilascio al quale procederanno solo in cambio della scarcerazione di tredici brigatisti, di cui per la prima volta fanno i nomi. Il 28 aprile, il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti va in televisione a ribadire la tragica convinzione con cui il governo percorre la "linea dura", contro il solo volere del PSI di Bettino Craxi. "Quale sarebbe la reazione dei poliziotti, degli agenti di custodia, dei carabinieri – dice il presidente del consiglio – se il Governo, alle loro spalle e contro la legge, facesse scempio della legge stessa? E cosa direbbero le vedove, gli orfani, le madri, di coloro che sono caduti nell'adempimento del proprio dovere?".
Via Caetani
Moro è condannato, ormai lo sa, per gli ex compagni di partito non spende più parole avendo fallito anche gli ingegnosi tentativi di guidare gli investigatori nel rifugio dove era tenuto recluso con alcune criptiche indicazioni nelle sue lettere. La polizia, i carabinieri, i servizi segreti non lo hanno trovato, il ‘suo' governo lo ha abbandonato, non gli resta che scrivere alla famiglia per dare le ultime disposizioni, gli ultimi dolcissimi saluti. Nel comunicato numero 9 i brigatisti annunciano che termineranno il processo "eseguendo" la sentenza a cui il Tribunale del popolo è giunto: quella di morte. Il 9 maggio 1978, nel bagagliaio di Reanult 4 parcheggiata in via Caetani, a pochi passi da via delle Botteghe Oscure, su segnalazione dei terroristi viene trovato il corpo di Aldo Moro.
‘L'affaire Moro'
Nessuna trattativa, nessuna risposta autoritaria all'eversione sanguinaria. ‘L'affaire Moro', come lo chiamerà Leonardo Sciascia, viene chiuso in silenzio. La famiglia chiede che venga rispettata la volontà del presidente della Dc: nessuna cerimonia pubblica. "Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro – dicono – giudicherà la storia". Alcuni giorni prima di morire il presidente aveva scritto la sua ultima lettera alla moglie. Dopo il suo straziante commiato alla famiglia e alla sua carissima Noretta: Aldo Moro scrive:
Non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? […] E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro.