In queste ore si sta discutendo molto della decisione del Calcio Padova di continuare a far giocare Michael Liguori, condannato a tre anni e quattro mesi in primo grado dal tribunale di Teramo per violenza aggravata nei confronti di una quattordicenne, un fatto che risale al 2018. Per l’allenatore della squadra si tratta soltanto di un “episodio molto spiacevole” e la società, che gioca in serie C, ha fatto sapere che “non esprimerà alcun tipo di valutazione in merito alla vicenda fintantoché la giustizia non si sarà espressa con una sentenza definitiva in ultimo grado di giudizio”.
Anche un altro giocatore del Padova, Carmine Cretella, è stato rinviato a giudizio per una presunta violenza sessuale commessa nel 2020 ai danni di una minorenne. Sempre nelle ultime ore ore è stata diffusa dai media svedesi la notizia di un mandato di arresto europeo nei confronti di Mbappé per uno stupro avvenuto a Stoccolma, che però non è ancora stata confermata da quelli francesi.
Quello di Liguori non è il primo caso del genere. Nel 2022, il giocatore Manolo Portanova era stato condannato in primo grado per stupro di gruppo a sei anni di reclusione. Nel suo caso, a pronunciarsi favorevolmente alla sua discesa in campo fu la Corte d'appello federale della Figc, che optò per la sospensione del giudizio fino alla condanna definitiva: il giocatore era stato inizialmente deferito dal Genoa, squadra in cui giocava, per aver violato il Codice di Giustizia Sportiva, ma dopo la decisione della Corte d’appello era potuto tornare in campo con la Reggiana in prestito.
L’articolo 4 del Codice prevede infatti che gli atleti, nonché i tecnici e gli ufficiali di gara, debbano osservare “i principi della lealtà, della correttezza e della probità in ogni rapporto comunque riferibile all'attività sportiva”. Tuttavia questo non significa in automatico che una sentenza di condanna penale sia sufficiente a deferire o allontanare un giocatore.
La decisione di un’eventuale sospensione non riguarda soltanto il rapporto tra il calciatore e la sua società. Come fa notare la presidente della rete dei centri antiviolenza D.i.Re Antonella Vetri, ridurre questi casi a “episodi spiacevoli” su cui non è possibile emettere un giudizio o una condanna anche solo morale, è una “banalizzazione di crimini gravissimi”, che rivolge la solidarietà “non alla vittima di violenza, ma all’uomo che è stato condannato, come se – nel processo – fosse lui la parte offesa, ferita, danneggiata”. Anche la famiglia della vittima dello stupro per cui è stato condannato Liguori ha espresso rammarico per non aver essere mai stata contattata dalla società Calcio Padova.
I casi di stupro che coinvolgono calciatori italiani e che hanno raggiunto rinvii a giudizio e condanne, anche definitive, sono ormai numerosi. In alcuni casi le società hanno preso provvedimenti, come nel caso del calciatore della Dolomiti Bellunesi, Daniel Onescu, condannato nel 2023 in primo grado a sei anni di reclusione per stupro di gruppo. Per la squadra, anche se non si è giunti al terzo grado di giudizio, Onescu andava allontanato perché si è “posizionato all’opposto dei valori di qualsiasi società”. La presunta violenza era stata commessa insieme ad altri compagni di squadra, allora tutti della Virtus Verona: uno di loro, Gianni Manfrin, ha proseguito il suo rapporto con la società anche in seguito alla condanna in appello, che ha confermato il primo grado.
Non sono solo le società italiane a comportarsi così con i giocatori indagati o processati per stupro. Da più di due anni si parla di un giocatore della Premier League inglese arrestato per tre diverse violenze sessuali e sempre rilasciato su cauzione. Il suo nome non è mai stato noto, perché protetto dalle regole inglesi sulla privacy, e l’atleta continua a giocare nel club di appartenenza. Altri due calciatori accusati di stupro, rimasti anch’essi anonimi, sono stati invece temporaneamente sospesi. Nel caso di Robinho, condannato in via definitiva in Italia per uno stupro ed estradato in Brasile, sono stati gli sponsor a impedire che, nel periodo in cui il Paese natale doveva ancora confermare la condanna italiana, tornasse a giocare per il Santos. Non volevano essere associati a uno stupratore.
Non esiste una regola chiara e univoca, né per il nostro Paese né per la Fifa, su come le società sportive debbano comportarsi nei casi di atleti coinvolti in processi penali. Ma è anche vero che diversi giocatori sono stati allontanati dalle squadre anche per reati molto meno gravi di una violenza sessuale, come nello scandalo delle calcioscommesse. In alcuni di quei casi era bastata un’indagine a far scattare la sospensione. In casi di stupro o di violenza domestica, invece, allenatori, compagni di squadra e tifosi diventano improvvisamente garantisti, spesso alludendo in maniera neanche troppo velata che le vittime si sono inventate tutto, magari per soldi o per fama.
Se è vero che secondo il nostro sistema si è innocenti fino al terzo grado di giudizio, allo stesso tempo non si può far finta che queste accuse, e in alcuni casi condanne, gravissime non abbiano alcuna importanza sul piano culturale e sociale. Ogni 25 novembre, i calciatori scendono in campo con un segno rosso in volto in ricordo delle vittime di violenza di genere e si fanno accompagnare nello stadio dalle bambine. “Il calcio è un modello a livello normativo”, aveva detto il presidente della serie A Lorenzo Casini presentando l’iniziativa lo scorso anno, facendo un parallelo tra il daspo e i cosiddetti “reati spia” che fanno scattare le misure preventive per la violenza di genere.
Proprio perché è un modello, e perché molti uomini si ispirano ai calciatori, sarebbe ora che questo tanto sbandierato impegno contro la violenza sulle donne andasse oltre le passerelle del 25 novembre. E se il calcio si vanta di allontanare i tifosi violenti che non rispettano i valori dello sport, cominci a farlo anche con i propri atleti.