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Il braccialetto elettronico non protegge davvero le donne: il femminicidio di Roua lo dimostra

Dall’entrata in vigore della legge n. 69 del 19 luglio 2019, il cosiddetto Codice rosso e successive modifiche, l’applicazione del braccialetto elettronico è diventata quasi una prassi standardizzata in tutti i casi, ma queste misure sono realmente efficaci se le donne continuano ad essere ammazzate?
A cura di Margherita Carlini
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Foto di archivio
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Roua N., 34 anni, è stata uccisa a coltellate davanti ai suoi due figli di 12 e 13 anni dal suo ex marito. La donna lo aveva denunciato per maltrattamenti e l’uomo a fine giugno era stato arrestato dopo averla aggredita ancora ed averle strappato il permesso di soggiorno, e poi posto ai domiciliari con obbligo di braccialetto elettronico. Ad agosto però il riesame avrebbe deciso che il divieto di avvicinamento a 500 metri con obbligo di braccialetto elettronico poteva essere sufficiente come misura cautelare per la tutela di questa donna.

Nonostante le pregresse violenze, nonostante le minacce di morte e nonostante il fatto che l’uomo continuasse ad avvicinarsi all’abitazione della donna e alla donna stessa, violando pertanto la misura cautelare, tanto che ora i vicini parlerebbero di continue e violente “liti” avvenute anche dopo l’emissione della misura.

Dall’entrata in vigore della legge n. 69 del 19 luglio 2019, il cosiddetto Codice rosso e successive modifiche, l’applicazione del braccialetto elettronico è diventata quasi una prassi standardizzata in tutti i casi, come se tale misura possa garantire sempre una reale tutela per le vittime. In realtà la trattazione in urgenza di tutti i casi equivale a un sovraccarico per le procure e pertanto a una gestione delle situazioni di violenza senza una valutazione specifica e professionalizzata dei livelli di rischi che le vittime corrono, con conseguente applicazione di misure che molto spesso, come la cronaca ci ricorda continuamente, risultano inefficaci.

È pur vero che molto frequentemente, per quella che è la mia esperienza diretta nei centri antiviolenza e quindi con le donne vittime della violenza maschile, i dispositivi tecnici sono mal funzionanti, vuoi per la perdita di segnale che per altri problemi tecnici che li rendono pertanto del tutto inutili alla tutela della donna.

Senza considerare quanto un dispositivo del genere sia estremamente invasivo e rivittimizzante per la vittima stessa. L’applicazione del braccialetto elettronico prevede infatti che al maltrattante venga messo il dispositivo e alla donna venga fornito un altro strumento che dovrebbe emettere una sorta di allarme in caso l’uomo si avvicini oltre il limite consentito. Questo comporta che la vittima viva in funzione del suo dispositivo, con il rischio che questo possa suonare in qualsiasi momento e contesto: a scuola, al lavoro, in palestra, mentre è con le amiche o con un nuovo partner.

Al di là di questi limiti tecnici, molto spesso, come nel caso in questione, l’applicazione di una misura cautelare che preveda un divieto di avvicinamento e l’attivazione di un dispositivo non può risultare efficace in termini di tutela perché disposta a prescindere da una corretta e attenta valutazione dei rischi.

Nelle relazioni maltrattanti vi sono comportamenti e condizioni specifiche che sono correlate a rischi più o meno elevati, ogni agito di un maltrattante sottende un significato psicologico che potrebbe essere utile nella previsione di quelli che saranno i suoi comportamenti futuri. La valutazione della pregressa sussistenza di comportamenti estremamente controllanti e possessivi, di agiti di violenza fisica, di minacce anche di morte, alle quali spesso fanno seguito tentativi di femminicidio, la violazione delle misure cautelari, l’escalation delle condotte violente e l’uso dei minori come strumento per mantenere il controllo nei confronti della ex partner sono tutti elementi che dovrebbero essere presi in considerazione per decidere il tipo di misura da applicare.

Questo affinché si possa parlare di una reale volontà di tutela delle vittime, che dovrebbe essere anteposta a qualsiasi altra azione, proprio come prevede la normativa vigente. Ad esporre le donne a ulteriori rischi è anche l’incapacità di valutare la violenza assistita come fenomeno imprescindibilmente legato a quello della violenza di genere.

In molti casi infatti, dopo la separazione e dopo la denuncia che la donna presenta, se la coppia ha figli, viene mantenuto il diritto di visita del padre, senza tenere in considerazione le ripercussioni che questo ha sui minori e il rischio correlato per la donna e i minori stessi. Un uomo che è stato violento con la propria partner in presenza dei figli, ha agito inevitabilmente violenza anche nei loro confronti.

La letteratura internazionale è concorde nel riconoscere una correlazione tra la violenza assistita e il rischio di sviluppare una pluralità di disturbi o di comportamenti inadeguati. I minori vengono pertanto esposti, loro malgrado a situazioni che li rivittimizzano e le loro dichiarazioni, in molti casi a supporto e testimonianza delle violenze subite dalla madre da parte del padre, non prese in debita considerazione, minimizzate o interpretate. Questo equivale a un’esposizione dei minori alla violenza, anche da parte delle istituzioni e ad un innalzamento dei rischi di recidiva e di escalation della violenta per loro stessi e per la donna.

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Sono Psicologa Clinica, Psicoterapeuta e Criminologa Forense. Esperta di Psicologia Giuridica, Investigativa e Criminale. Esperta in violenza di genere, valutazione del rischio di recidiva e di escalation dei comportamenti maltrattanti e persecutori e di strutturazione di piani di protezione. Formatrice a livello nazionale.
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