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I misteri sulla morte di Paolo Borsellino: “Oltre alla mafia, chi aveva interesse a ucciderlo?”

A trent’anni dalla strage, tra depistaggi, agende scomparse, finti pentiti e fughe di notizie, l’attentato a Paolo Borsellino resta uno dei buchi neri della storia contemporanea del nostro paese.
A cura di Antonio Musella
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Tra l'attentato di Capaci, dove morì Giovanni Falcone, a quello di via D'Amelio a Palermo, dove morì Paolo Borsellino, passarono 57 giorni. In quei giorni Paolo Borsellino indagò costantemente per fare luce sulle trame oscure che si muovevano in Italia in quegli anni e sui rapporti tra la mafia ed apparati dello Stato. Il 19 luglio 1992, una Fiat 126 imbottita di tritolo mise fine alle sue ricerche. Dopo 30 anni i lati oscuri della stagione delle stragi in Italia sono ancora tutti lì. Questioni inevase, depistaggi che cercano verità, morti che cercano giustizia piena. "Fu l'emblema dei depistaggi in Italia" dice Sandro Ruotolo riferendosi alla strage di via D'Amelio ed a quello che avvenne dopo. Una ferita ancora aperta che non si rimargina, in un paese dove la giustizia e la verità restano confinati alle versioni giudiziarie di veri e propri buchi neri della nostra storia contemporanea.

La rabbia di popolo e l'agenda rossa

"La prima cosa che ricordo è la rabbia – spiega Sandro Ruotolo ricordando i funerali della scorta di Paolo Borsellino – ci si chiedeva, ma come, 57 giorni fa è stato ucciso Giovanni Falcone e non siamo stati capaci di proteggere Paolo Borsellino?". Quel funerale è passato alla storia per un vero e proprio assalto di popolo alla cattedrale di Palermo, dove rabbia e sete di giustizia presero di mira tutti i rappresentanti dello Stato, a cominciare da Oscar Luigi Scalfaro, appena eletto presidente della Repubblica e costretto ad avanzare tra gli spintoni nella chiesa gremita, protetto fisicamente dall'allora capo della polizia, Vincenzo Parisi e dal magistrato Giuseppe Ayala, amico di Falcone e Borsellino. Fu un sussulto in quella stagione delle stragi che avrebbe visto ancora le bombe e gli omicidi del 1993. Ma sono i 57 giorni che intercorrono tra la morte di Falcone e quella di Borsellino ad essere la chiave per capire cosa avvenne davvero nelle stanze dello Stato mentre si compiva la strategia stragista voluta dai corleonesi di Totò Riina. "Borsellino non era solo amico di Falcone, ma era anche collega, e quindi era testimone di tutta una serie di considerazioni che Falcone gli aveva fatto sulle indagini" spiega Ruotolo. Borsellino era quindi un testimone e chiese subito dopo la strage di Capaci di essere ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, che dovevano procedere per competenza.

Lo chiese anche pubblicamente, il 25 giugno, durante un dibattito pubblico organizzato da MicroMega alla biblioteca comunale di Palermo. Ma in quei 57 giorni, la Procura di Caltanissetta non ritenne di convocare Paolo Borsellino come persona informata sui fatti in merito alla morte di Giovanni Falcone.  Quelle riflessioni, quelle confidenze, raccolte da Giovanni Falcone, Borsellino le scriveva nella sua agenda rossa, dalla quale non si separava mai, come testimonieranno anche i familiari. L'agenda rossa era nella borsa del magistrato quando il 19 luglio 1992 si recò a casa della madre e trovò ad attenderlo un'autobomba che gli tolse la vita. A 30 anni di distanza quell'agenda non è mai venuta alla luce. Persa? Smarrita? Fatta sparire? Di fatto è stata consegnata anch'essa al buco nero di quel pezzo di storia d'Italia.

Agenda originale di Paolo Borsellino
Agenda originale di Paolo Borsellino

L'interrogatorio di Mutolo e la giornata del 1° Luglio

Ma nonostante la reticenza dei colleghi di Caltanissetta a convocarlo, Borsellino non smise mai di indagare sui rapporti tra la mafia e gli apparati dello Stato. Oltre all'agenda rossa ne aveva un'altra, nera, dove segnata tutto ciò che faceva, gli appuntamenti, gli spostamenti, addirittura le note spese. E' stata conservata fino ad oggi da Fiammetta, sua figlia, e grazie a quell'agenda è stato possibile ricostruire tutti gli ultimi giorni di Paolo Borsellino. "La  data importante è quella del 1° luglio" ci suggerisce Ruotolo nel suo racconto. La pagina originale dell'agenda di Borsellino, vede riportato in quel 1° luglio un lungo appuntamento alla DIA a Roma. "E' lì che lui interroga per la prima volta Gaspare Mutolo, un pentito mafia che aveva chiesto espressamente di parlare solo con Borsellino" racconta Ruotolo. Nell'agenda viene poi riportato un appuntamento con Vincenzo Parisi, all'epoca capo della polizia, e con Nicola Mancino, appena insediatosi come nuovo Ministro dell'Interno. "Mancino per molti anni non ricorderà quella circostanza, quell'incontro" sottolinea Ruotolo.

Ma quello che avvenne dopo, viene ricostruito direttamente dal pentito Gaspare Mutolo, che in quelle ore iniziò a parlare degli infiltrati della mafia nello Stato. "Quando Borsellino ritornò da me – spiegò Mutolo in una delle sue deposizioni in un'aula di tribunale – era agitato, tanto che aveva due sigarette in mano. Gli chiesi perché fosse così agitato, e mi risposte che quando andò ad incontrare Parisi e Mancino, uscendo trovò Bruno Contrada". All'epoca Bruno Contrada era il numero tre del SISDE, il servizio segreto interno, e proprio la sua figura era al centro delle rivelazioni dello stesso Mutuolo. "Contrada gli disse: digli a Mutolo che se ha bisogno di qualcosa me lo faccia sapere" riporta il pentito dalla conversazione che ebbe con Paolo Borsellino. "Nessuno avrebbe dovuto sapere che Borsellino stava interrogando Mutolo, era una notizia top secret" ricostruisce Ruotolo. Quello che doveva essere una delle figure su cui si incentravano le dichiarazioni del pentito Mutolo, si era palesata a Borsellino, proprio fuori alla stanza del Ministro degli Interni appena nominato. "Successivamente Contrada fu arrestato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa – spiega Ruotolo – ma successivamente la Corte di Giustizia Europea disse che non si poteva condannare Contrada per un reato che all'epoca dei fatti non esisteva ancora". E' la cosiddetta "Sentenza Demitry" espressa dalla Corte di Giustizia Europea, che permise a diversi politici e uomini dello Stato di evitare la pena per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa che fu introdotto in Italia solo nel 1994.

Un'immagine della strage di via D'Amelio del 19 luglio 1992
Un'immagine della strage di via D'Amelio del 19 luglio 1992

Il pentito Scarantino ed il depistaggio

Ad indagare sulla strage di via D'Amelio fu un apposito gruppo creato dalla polizia di Stato, che prese il nome "Falcone e Borsellino", che fu guidato all'epoca da Arnaldo La Barbera, ai tempi Questore, poi divenuto Prefetto fino alla sua morte nel 2002. "Questo gruppo guidato da La Barbera – spiega Ruotolo – costruì la figura del pentito Vincenzo Scarantino, che si autoaccusò della strage, fece i nomi di diverse persone, molte delle quali completamente innocenti". Una attività che fu definita di depistaggio. La Barbera morì nel 2002, ma i suoi tre più stretti collaboratori sono finiti a processo che si è chiuso proprio nelle ultime settimane.

Un'assoluzione e due prescrizioni, per quello che è stato definito il "depistaggio di via D'Amelio". Per i giudici è caduta l'aggravante mafiosa, ed il reato di falsa testimonianza è andato dunque prescritto. La versione di Vincenzo Scarantino resta una verità processuale fino al 2008, quando si pente Gaspare Spatuzza, che fornisce un'altra versione. Spatuzza si autoaccusa della strage di via D'Amelio, consentendo così la scarcerazione di diversi innocenti. Non solo ma parla anche di un uomo, non appartenente a Cosa Nostra che sarebbe stato presente nel garage dove è stata confezionata l'autobomba di via D'Amelio. Il pentito Spatuzza era il braccio destro dei fratelli Graviano, tutt'altra caratura rispetto a Scarantino, definito un ladruncolo, un pesce piccolissimo. Lo stesso Scarantino spiegherà di essere stato costretto al pentimento ed a fornire quella versione, dopo mesi di torture ricevute in carcere da parte di altri detenuti. "Ogni volta che chiedevo di parlare con i magistrati, arrivava solo La Barbera" dichiererà poi Scarantino.

Chi altro aveva interesse a uccidere Falcone e Borsellino?

Il depistaggio ci fu, anche se non c'era l'aggravante mafiosa. L'agenda rossa non è stata mai trovata. Borsellino non fu mai ascoltato come persona informata dei fatti sulla morte del suo amico Giovanni Falcone, nonostante lo avesse chiesto pubblicamente. Mentre il pentito Mutolo parlava a Borsellino, in forma riservatissima, dei rapporti tra Stato e Mafia, l'ex dirigente dei servizi segreti Bruno Contrada sapeva già tutto. Sono tutti fatti oggettivi che riguardano la storia della strage di via D'Amelio. I buchi neri e le verità mancate sono ancora tante. "Perché si depista?" si chiede Sandro Ruotolo. "Si depista per poter dire che dietro le stragi c'era solo mafia e nessun altro. Solo mafia. Ma quali altre forze avevano interesse a uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?" si chiede il senatore. "Noi abbiamo avuto i pentiti di mafia – spiega – quelli che venivano definiti la malacarne, eppure non abbiamo ancora avuto un pentito di Stato, perché?". Interrogativi che sono gli stessi di Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato, che ha deciso di non partecipare più alle commemorazioni pubbliche della strage di via D'Amelio. "Perché lo Stato non ha indagato davvero" sostiene la figlia di Borsellino.

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