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I malati di Huntington sono ancora senza una cura: “Ma anche questa è vita, speriamo nella ricerca”

La malattia di Huntington è una patologia rara del sistema nervoso centrale che si manifesta in età adulta. L’incidenza in Italia è di circa un caso ogni diecimila persone e i sintomi più diffusi sono movimenti involontari, alterazioni del comportamento, progressivo deterioramento cognitivo, atteggiamenti compulsivi e depressione. Ogni figlio di una persona malata ha il 50% di probabilità di ereditare il gene della còrea e al momento non esiste ancora una cura. Anzi, da qualche mese si sono interrotte due sperimentazioni promettenti per arrivare alla produzione di un farmaco ad hoc, visto che per ora ci sono solo terapie per i diversi sintomi.
A cura di Beppe Facchini
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Da qualche anno, maggio è il mese internazionale dedicato alla consapevolezza sulla malattia di Huntington, una rara patologia del sistema nervoso centrale, che si manifesta in diverse forme intorno ai 45-50 anni, anche se esistono rari episodi in età giovanile. Si tratta di una malattia ereditaria (detta anche còrea di Huntington) che in Italia ha un'incidenza di circa un caso ogni 10.000 persone. “Si manifesta in forme diverse: c'è chi ha prevalentemente sintomi motori e chi prevalentemente sintomi comportamentali -spiega Antonio Fontana, presidente dell'Associazione Italiana Huntington Emilia-Romagna-. Poi c'è un'evoluzione nel tempo: si parte da una situazione in cui tutto sommato la persona riesce ancora muoversi liberamente, fino a un progressivo decadimento che porta, nel giro di 15-20 anni, all'allettamento e poi alla morte, che però non è legata tanto alla malattia, quanto agli effetti collaterali. Ad esempio -continua Fontana-, al fatto che ci sono problemi di deglutizione, perchè la persona non riesce a mangiare o il cibo va nei polmoni. Oppure, alle cadute continue, perchè siccome si perde l'equilibrio con una certa facilità, le fratture diventano uno dei problemi principali”.

Lo sanno bene anche Chiara e Mariarosa, rispettivamente sorelle di Adriano e Giorgia, da qualche anno alle prese con l'Huntington. “È una malattia che ti toglie il controllo di te stesso” dice Chiara, che vive a Piacenza insieme al fratello maggiore di qualche anno. La loro quotidianità, come quella di tutti i familiari che assistono i malati di Huntington, è stata completamente stravolta da quando sono comparsi i sintomi della patologia. Movimenti involontari, alterazioni del comportamento, progressivo deterioramento cognitivo, atteggiamenti compulsivi, depressione: l'elenco, purtroppo, è lungo. E nonostante gli sforzi della ricerca, non esiste ancora nessuna cura per la malattia di Huntington: si possono solo fare terapie per i diversi sintomi. Proprio nelle ultime settimane, le speranze di chi ogni giorno affronta la còrea, sulla propria pelle o su quella di un familiare, hanno ricevuto però delle cattive notizie. “Purtroppo, ad oggi, dei veri risultati non sono stati ottenuti -conferma Fontana-. Pareva che un farmaco, il Tominersen della Roche, potesse essere risolutivo, invece recentemente è stato comunicato che veniva sospesa la sperimentazione in quanto non produceva risultati rispetto al placebo. E anche la Wave -continua il presidente di Aiher-, che utilizzava un principio analogo, l'Aso (farmaci antisenso, ndr), ha deciso di interrompere la sperimentazione, per motivi analoghi”.

La corsa contro il tempo verso una terapia è quindi tutta in salita, ma bisogna fare presto. Ogni figlio di una persona portatrice del gene della còrea ha il 50% di probabilità di ereditarlo: attraverso un test genetico è possibile sapere la diagnosi anche prima rispetto all'insorgenza dei sintomi, ma in molti, come Chiara, preferiscono non sottoporsi all'esame. “Visto che non ci sono cure preventive, non l'ho fatto” conferma la sorella di Adriano, 64enne grande appassionato di musica rock e di Formula Uno. “A Montecarlo ci andavo sempre -racconta-. Facevo il muratore, avevo un'impresa. All'inizio mi facevo la barba e la doccia da solo, poi piano piano non ci sono più riuscito”. E anche camminare è diventato sempre più difficile. “Ma con la carrozzina andiamo dappertutto” precisa Adriano.

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Il problema, a volte, è di non essere capiti: quando usciamo le vedo le persone che ci guardano, perchè non sanno che cos'è -aggiunge la sorella-. Ma non puoi spiegare a tutto com'è la situazione”. La malattia del fratello è stata ereditata dal padre: in famiglia, quindi, era già ben nota. Ma non è così per tutti. “Avevamo anche la bisnonna e il nonno -ricorda Chiara-. In cuor tuo lo sai già, però quando arriva la diagnosi, quando lo vedi scritto nero su bianco prendi la consapevolezza di cosa ti aspetterà, perchè lo hai già vissuto”. Un po' come successo a Mariarosa Ponginebbi e sua sorella Giorgia. “Noi però non sapevamo di avere di avere la malattia in famiglia, probabilmente l'aveva nostro padre, morto giovane di un'altra malattia” precisa Mariarosa, infermiera che non fa mai mancare una mano alla sorella. Faceva l'assistente sociale, è sposata ed ha un figlio adolescente che, in un modo o nell'altro, riesce sempre a seguire nelle gare motociclistiche in giro per l'Italia. “È chiaro che non è più la vita di prima -continua-. Lei amava leggere, viaggiare, ballare. Però ci sono ancora delle cose che per fortuna riesce a mantenere”. La scoperta del gene in famiglia è arrivata con la diagnosi ad una delle altre due sorelle di Giorgia, scomparsa quasi due anni fa, poco più che cinquantenne.

“L'unica negativa al test sono io, è un po' la sindrome del superstite” racconta infine Mariarosa, con la speranza, esattamente al pari di tanta altra gente (secondo le stime 400 malati in Emilia-Romagna e 6.000 in Italia, più le rispettive famiglie), è che la ricerca possa finalmente trovare un modo per spezzare questa catena. Grazie alla fecondazione assistita, isolando il gene malato, si è aperta una strada per gravidanze che escludano l'ereditarietà della còrea di Huntington, ma non basta. “Devono riuscire a trovare un farmaco, io penso che adesso, con la ricerca, con i passi avanti fatti dalla mappatura del Dna -conclude Chiara- secondo me possono riuscirci. Ci vuole impegno. Lo so che la ricerca costa e i malati sono relativamente pochi per una industria farmaceutica, ma se serve anche a far star bene una sola persona, una medicina vale la pena di cercarla”.

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