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I femminicidi aumentano, ma l’Italia chiude i centri antiviolenza sulle donne

In Italia una donna viene uccisa ogni 72 ore, ma i centri anti-violenza sono molti meno di quanti dovrebbero essere, e continuano a diminuire. Colpa di fondi insufficienti, e che anche quando ci sono, non vengono erogati. Quello di Lucha Y Siesta non è che il caso più emblematico di una vergogna italiana.
A cura di Martina Di Pirro
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Un silenzio tombale fa eco lungo via Cavour, a Roma. Sono le 16.30 di sabato 23 novembre ed un corteo di centinaia di migliaia di donne si ammutolisce per cinque minuti. In occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite in ricordo delle tre sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana uccise nel 1960, si alzano cartelli con il nome delle vittime di femminicidio. Alcuni rimandano a Daniela Carrasco, conosciuta come “la Mimo”, uno dei volti più noti delle proteste di piazza in Cile, catturata, torturata e impiccata lo scorso 20 ottobre. Altri ancora a donne comuni, le cui storie sono conosciute solo a chi le aveva vicine. Un grido muto, così lo hanno chiamato.

Secondo l’Istat, nel 2018 le vittime di femminicidio sono state 142, un numero in crescita rispetto all'anno precedente, e 94 quelle registrate nei primi dieci mesi del 2019. Un rapido calcolo porta a dire che, in Italia, una donna viene uccisa ogni 72 ore. Dei dati duri che, quando letti insieme a quelli del Rapporto Eures "Femminicidio e violenza di genere", secondo cui a crescere, nel 2018, sono stati soprattutto i femminicidi commessi in ambito familiare, registrano il valore più alto di vittime mai censito in Italia. Per non parlare della disparità salariale al 23%, a dire che solo il 48% delle donne lavora. 

Ma esiste un dato ancora più inquietante: i centri antiviolenza, unico antidoto all’aumentare delle violenze, continuano ad essere sotto attacco. Sgomberi, minacce di chiusura, attacchi mediatici. In testa al corteo, di risposta, le rappresentanti dei centri antiviolenza, delle case delle donne e dei consultori, marciano con le maschere delle luchadoras a sostegno di Lucha Y Siesta e di tutti gli altri spazi di autodeterminazione minacciati di sgombero. Pochi sanno che, nel settembre del 2018, la maggior parte dei centri antiviolenza italiani si erano recati al Parlamento europeo per raccontare la disastrosa condizione in cui versavano. Nel 2017, avevano raccontato, erano state 43.000 le donne che si erano rivolte a questi centri e i fondi pubblici erogati in quell’anno erano stati di 12 milioni di euro, ossia una media di 76 centesimi al giorno per ogni vittima. L’incontro si era concluso con l’invio di una lettera alla Sindaca di Roma, Virginia Raggi, firmata dalle rappresentati dei centri e da molte europarlamentari, volenterose di essere parte di un cambiamento. Nulla di fatto: nessuna risposta dalla sindaca e, a distanza di un anno, la presenza della amministrazione capitolina continua a mancare. Tra gli slogan anche "Raggi, Raggi, tu cadrai, se i luoghi delle donne non difenderai".

“Secondo la Convenzione di Istanbul, – racconta un’attivista in marcia a Roma – ogni Paese dovrebbe essere dotato di un centro antiviolenza ogni 10.000 abitanti: in Italia, esistono 281 strutture 0,05 per 10 mila residenti, ovvero un ventesimo del necessario. Senza fondi, non possiamo andare avanti. Senza un accordo con i Comuni, il rischio che le donne vittime di violenza ritornino nella spirale omicida è davanti gli occhi di tutti. Nei confronti degli spazi femministi si sta perpetrando un grave attacco politico. Le politiche in atto intendono cancellare tutti i luoghi che, costruiti sulla solidarietà e le pratiche politiche delle donne, promuovono cultura e inclusione, sostengono l'autonomia e l'autodeterminazione e contrastano la violenza maschile sulle donne.”

“Non accettiamo l’assenza di presidi sociali sui territori in grado di contrastare la violenza di genere in tutte le sue forme, perché sappiamo che un fenomeno culturale e profondamente radicato nella società richiede interventi altrettanto profondi, integrati e capillari nei territori, affinché possa crescere la cultura del rispetto e della diversità contro gli stereotipi sessisti e violenti – afferma Lucha y Siesta, luogo di accoglienza abitativa e sociale femminile che fornisce informazione, orientamento e ascolto alle donne, ora a rischio chiusura dopo aver accolto 1.200 donne e 140 ospitate con 60 minori, – Per fare questo le donne, le femministe, i gruppi e le associazioni devono potersi ritrovare nei luoghi nati grazie allo storico movimento delle donne e nei presidi territoriali aperti grazie al nuovo protagonismo dei movimenti femministi”.

Anche la campagna One Billion Rising, attiva dal 2012 e ideata, a suon di passi di danza per le piazze, da Eve Ensler, drammaturga e attivista per i diritti umani, conosciuta per i suoi “Monologhi della vagina”, nel 2020 avrà al centro il tema dei centri antiviolenza. Un tema che le forze di governo avvicendatesi negli ultimi anni hanno affrontato a colpi di ping pong. “Se le forze politiche ascoltassero gli spazi delle donne, – afferma un’attivista della Casa Internazionale delle Donne, da lungo tempo sotto i riflettori per minacce di sgombero – non ci sarebbero questi inaccettabili ritardi nell'assegnazione e nello stanziamento delle risorse”.

Ritardi di cui si è allarmata anche Action Aid, che ha monitorato i fondi antiviolenza nazionali ripartiti tra le Regioni per le annualità 2015-2016 e per il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere 2015-2017, in base alla Legge 119/2013 (la cosiddetta legge sul femminicidio), riscontrando un’erogazione solo del 35,9% del totale. Le Regioni, ad oggi, hanno liquidato solo il 25,9% delle risorse. Il decreto del Presidente del Consiglio per la ripartizione dei fondi antiviolenza 2019 non è ancora stato emanato.

Anna (nome di fantasia per proteggerne l’identità) cammina silenziosa nelle ultime file del corteo. Tiene per mano un’altra donna, che porta un cartello con un nome e un’età scritta sopra. “Sono viva solo perché ho trovato un centro che mi ha accolta – racconta gridando  di quando in quando “Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che non hanno più voce” –  La violenza non ha colore, passaporto o specie. È violenza anche ritrovarci per strada, senza fondi, marginalizzate da una società che ci ha costrette in una casa in cui subivamo abusi. Una di noi muore ogni tre giorni. Questa è la battaglia del secolo.”

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