“Ho lasciato l’Italia per vivere a Berlino: qui noi giovani non siamo costretti a vivere da precari”
Tano Perretta ha 36 anni e gli ultimi undici li ha passati a Berlino. Originario della provincia di Cosenza, dopo il liceo si è trasferito a Milano per studiare Design della comunicazione, senza più riavvicinarsi a casa.
In Germania, svolge la professione di User Interface Designer (si occupa dell’interfaccia utente di software e pagine web). Non ha idea di cosa ne sarà del suo futuro, ma sa che quella di trasferirsi – e stabilirsi, almeno per ora – nella capitale tedesca è stata la scelta migliore che potesse fare.
A Fanpage.it ha raccontato la sua storia, che è quella di tanti ragazzi e ragazze che per amore, studio e soprattutto lavoro decidono ogni anno di emigrare dall’Italia.
“Undici anni fa, poco dopo la laurea al Politecnico di Milano, ho fatto le valigie e mi sono trasferito a Berlino”. Da quel 2012 Tano non è più tornato a vivere in Italia.
“Ho deciso di seguire la mia ragazza di allora, che aveva trovato lavoro in Germania. Io al tempo stavo facendo un tirocinio in un quotidiano che a malapena mi permetteva di pagare l’affitto per un posto letto a Milano. I 300 euro che guadagnavo finivano tutti per la stanza (e comunque i prezzi erano notevolmente più bassi rispetto ad ora), senza coprire nemmeno le bollette”.
Appena arrivato a Berlino, Tano ha trovato un altro lavoro da tirocinante e sin da subito ha capito che l’aria era diversa: “Lavoravo come digital designer per 650 euro al mese. La stanza, spese incluse, costava 280 euro: si trattava di un netto miglioramento della mia situazione”.
Sono passati 11 anni e diversi lavori da allora, ma ancora si stupisce al ricordo di essere partito con un pensiero completamente diverso: “All’inizio pensavo fosse una cosa solo temporanea, non ero mica partito con l’idea di restare. Però poi mi sono trovato molto bene, mi hanno offerto un contratto a tempo indeterminato… Beh, sono rimasto”.
Berlino, per Tano, è una continua scoperta: “Io vengo da un paesino del sud Italia, fa ancora più contrasto. È una città dinamica, in continua crescita ed evoluzione. Berlino offre davvero tanto a chiunque – forse persino troppo, è alto il rischio di perdersi – a livello di sviluppo personale si sta decisamente meglio”.
Per non parlare poi della prospettiva lavorativa. “Non è solo una questione di stipendi – senza paragoni – ma anche di concezione del lavoro in sé, di rispetto dei lavoratori e della loro attività. Ho lavorato come freelance sia in Italia che in Germania. Ebbene, per lo stesso identico progetto in Italia mi assumevano per la metà delle ore, ero pagato meno e mi richiedevano lo stesso carico di lavoro che in Germania mi avrebbero dato con 10-15 ore di lavoro in più e con stipendi maggiori”.
“Un esempio, per rendere meglio l’idea della diversa percezione del lavoro e dell’importanza dello stesso dipendente. Ieri il nostro capo ci ha detto: ‘Per invogliarvi a passare più giornate in ufficio (visto che siamo tutti in smart working), pensavo di organizzare grigliate dopo il lavoro ed eventi di team building’. Io ridevo sotto i baffi e cercavo di immaginarmi come sarebbe andata in Italia, probabilmente se la sarebbe cavata con un secco: ‘Domani tornate in ufficio, punto e basta'”.
Secondo il giovane, questo clima di rispetto reciproco e stima sarebbe abbastanza comune al di là delle Alpi, non frutto di un fortunato caso: “La differenza è che in Germania c’è tanto lavoro, quindi il dipendente ha il coltello dalla parte del manico. Le aziende ci tengono a trattarti bene per non perderti”.
Lo stesso non si può certo dire dell’Italia: “Sono stato un anno in Australia e al mio rientro, nel 2020, ho cercato lavoro in Italia, Spagna e Germania. Ho fatto un colloquio in Italia e ho chiesto uno stipendio più basso addirittura del 30%: mi hanno guardato quasi scocciati facendomi capire che era comunque troppo”.
“Lavorare in Italia, dopo aver lavorato in Germania o Australia, come si dice dalle mie parti è ‘come se una volta provata la carne, torni indietro a mangiare pane e cipolle’”.
La vita da emigrato non è ovviamente tutta rose e fiori, certe mancanze come la famiglia, le bellezze artistiche e naturali si fanno sentire. “Eppure, perché dovrei tornare? Non credo possa cambiare, l’Italia è così. La cosa triste è che, soprattutto visto da fuori, sembra un Paese bloccato: si parla sempre degli stessi problemi, non si riescono mai a fare reali passi avanti”.
Quella di Tano è solo una delle tante storie di quelli che vengono definiti “expat”, italiani stabilitisi all’estero per motivi di lavoro. A Berlino è frequentissimo sentire parlare italiano per strada, o dietro al bancone di un locale, nei negozi. Persino nei cambi d’ora tra una lezione e l’altra, nelle scuole.
Marco – chiamiamo così un altro giovane che si è rivolto a Fanpage.it ma preferisce restare anonimo – è originario di Foggia e dopo essere emigrato già una prima volta a Bologna per frequentare la facoltà di Lingue, è tornato nella sua Puglia. Per tre anni ha insegnato tedesco part-time in un liceo, con uno stipendio che si aggirava intorno ai 600 euro.
A marzo 2023 si è licenziato e ha deciso di trasferirsi in pianta stabile a Berlino. “Ho lavorato circa un mese e mezzo in un museo come interprete – racconta a Fanpage.it – prima di essere assunto come professore di tedesco a tempo pieno nella scuola dove insegno adesso. Il mio stipendio è di 4200 euro lordi (circa 2750 euro netti), chiaramente a tempo indeterminato. La scuola mi fornisce il biglietto mensile dei mezzi pubblici e tutti i vari corsi di perfezionamento”.
“Mi risultava difficile anche solo immaginare che un giovane potesse vivere così, senza essere condannato alla precarietà, prima di venire a Berlino. Mi mancano sì le piccole cose, come il rumore del mare in sottofondo o l’istintiva accoglienza delle persone: adoro l’Italia, la sua storia, le persone, il cibo, la natura e la sua bellezza. Proprio perché la amo così tanto provo ancora più rabbia”.
“Vorrei che i miei coetanei e colleghi sapessero che il problema non sono loro, ma la mancanza di opportunità che caratterizza il nostro Paese e lo differenzia da altre realtà come quella tedesca. È improbabile che cambi la situazione. So che suona come se mi stessi arrendendo, ma mi chiedo spesso: fino a che punto ha senso resistere?”.
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