Gomorra: su Pietro Savastano l’ombra del “professore di Vesuviano”
Don Pietro Savastano dovrebbe essere l’alter ego cinematografico del boss Paolo Di Lauro, detto Ciruzzo ‘o milionario. Il condizionale è d’obbligo visto che nel corso delle puntate, e precisamente dopo l’ingresso nel carcere, il personaggio si piega verso la mimesi del Cutolo di Tornatore, provando, arditamente, ad innovare e sostituire nell’immaginario collettivo il mito popolare incarnato da Ben Gazzara.
In quanto rappresentazione del Di Lauro, don Pietro viene raffigurato come il modernizzatore della camorra che, durante gli anni Novanta, trasforma la periferia nord di Napoli in un bacino illegale/criminale: un amalgama indistinto di quartieri urbani e comuni dell’hinterland dove accanto alle numerose attività imprenditoriali sommerse si innestano impenetrabili piazze di spaccio. Grazie al monopolio della violenza e alla enorme quantità di denaro liquido, l’Alleanza di Secondigliano piega il sistema di imprese occulte alle logiche criminali, dando vita ad un “distretto industriale” che si avvale di una tradizionale “riserva” di lavoro nero.
Un modello di governance camorristica: forze produttive, lavoratori precari, cittadini disagiati e senza reddito formano un blocco sociale coeso ed omogeneo che delega al clan la sua rappresentanza “istituzionale”. Così come il contesto mezzadrile della “Terza Italia” è evoluto verso la costituzione di “aree di sistema”, organizzate intorno al successo di un’azienda a conduzione familiare, allo stesso modo il “distretto informale” dell’area nord di Napoli rappresenta l’evoluzione della camorra urbana in senso imprenditoriale. Una realizzazione empirica in cui si incrociano comunità locale, imprese sommerse e criminalità.
Il primo ad accorgersi delle potenzialità distrettuali è Ciruzzo ‘o milionario. Con lui si inaugura la stagione del franchising della camorra: si occupa dei grandi traffici, degli investimenti produttivi, dell’approvvigionamento delle scorte, della vendita all’ingrosso, apponendo il marchio del clan come garanzia di qualità. Tra Paolo Di Lauro e i suoi gregari si stabilisce lo stesso rapporto che un grande gruppo commerciale istituisce con i suoi affiliati. La Benetton della camorra: una impresa multinazionale, con un forte radicamento territoriale, il cui consiglio d’amministrazione affida le scelte strategiche all’amministratore delegato e lascia l’attività ordinaria alla rete dei dettaglianti.
Le cellule autonome del clan si strutturano come dei “punti vendita”: ognuno con un direttore, un commesso, un cassiere e un magazziniere che percepiscono lo stipendio a seconda della mansione. Si improvvisa, inoltre, un indotto di esercenti abusivi che “campano” intorno alle attività di spaccio: venditori di panini e bibite per i dipendenti del clan e distributori di siringhe di contrabbando per i tossicodipendenti. Può capitare, però, che i gestori dei “punti di vendita”, dopo una lunga gavetta, aspirino all’autonomia e utilizzino le conoscenze acquisite, e il denaro accumulato, per mettersi in proprio.
Cercano di proporre un nuovo brand in competizione con la casa madre. Si mette in moto, allora, una guerra commerciale che nel distretto della camorra significa “scissione armata”, con evidenti conseguenze di ordine morale: bisogna “bonificare” il territorio estirpando la malapianta. La competizione provoca un’artificiale alterità tra i gruppi. Il conflitto fa emergere la necessità di ritagliare un’identità particolare. Le “scissioni” spingono i clan a trovare delle differenze, a creare delle divergenze: l’identità de “gli spagnoli” esiste solo se è identificabile come “altra cosa” rispetto al clan Di Lauro. La guerra è il mezzo per produrre la radicalizzazione della diversità, ma la violenza è il nesso culturale su cui poggia la competizione/scontro: il disconoscimento dell’Altro come proprio “simile”. È necessario schiacciare, sottomettere e umiliare il nemico per affermare la propria superiorità. Si innesca, così, un meccanismo di azione e reazione con una catena indefinita di omicidi in cui, di volta in volta, l’uno prevale sull’altro.
La scissione di un clan è una lotta senza regole che non lascia intatto e separato il quartiere dal conflitto, anzi i cittadini vengono avvinghiati e coinvolti, loro malgrado, nella dimensione della guerra permanente. Uccidere l’avversario, compiere atti bestiali, assassinare gli indifesi è l’evoluzione finale di un percorso che, dalla ghettizzazione all’autosegregazione, termina con l’etnicizzazione territoriale. Tra le rovine delle periferie” si è radicata l’erba cattiva dell’odio “razziale” di stampo criminale. Il Quartiere – Stato si divide in Rioni – Stato, Vicoli – Stato, tante piccole entità interne in cui si difende un proprio “spazio vitale”. Lo scissionismo ha scatenato una guerra “balcanica” dove gli amici di sempre da un giorno all’altro sono diventati nemici da abbattere senza pietà.
Una volta entrato in carcere don Pietro, da padre padrone, diventa guida e punto di riferimento di vecchi e giovani galeotti. Si rispristina l’antico costume camorristico del controllo degli istituti di pena, proprio come accadeva nell’Ottocento e poi con Raffaele Cutolo. Guardie carcerarie corrotte e linee di comunicazioni aperte tra penitenziario e territorio sono l’emblema di un potere secolare. A differenza del passato, però, la battaglia interna non è tra clan rivali ma con le “scimmie” africane che pretendono autonomia e maggiori guadagni da spartire. Lo Stato è personificato in maniera ostica da un direttore inflessibile che, tuttavia, è costretto a cedere a causa di una sobillazione scatenata da don Pietro.
È questo il frangente narrativo in cui Sollima più si avvicina alla citazione de “Il camorrista”. Invece, quando il boss viene ristretto al regime del 41 bis, si opera una parafrasi filmica: al Cutolo falso pazzo viene corrisposto il Savastano che finge uno stato progressivo di depressione con effetti catatonici. Come ha spiegato Corrado De Rosa, psichiatra forense, nel libro “I medici della camorra”, si tratta di una simulazione molto in voga tra i boss costretti al carcere duro. Una modalità con la quale cercano di evitare l’isolamento nella speranza di essere trasferiti in un ospedale psichiatrico giudiziario, dove si può avere una maggiore libertà di manovra, o di eludere il processo e la sicura condanna. Dietro questi atteggiamenti si nascondono sempre medici compiacenti disposti a certificare il falso redigendo perizie fasulle in cambio di denaro e favori. Nel caso in questione, durante il trasferimento, una task force di uomini fidati (come nei film d’azione americani), libera il capo, richiamando, ancora una volta, la vicenda di Cutolo relativa all’evasione dal manicomio criminale di Aversa.
Nonostante tutto il personaggio piace: su Facebook esiste una pagina fan dedicata al boss dove sono postate tutte le sue battute più incisive (così come è accaduto per il Riina de “Il capo dei capi”, per il Libanese di “Romanzo criminale” e tanti altri personaggi – compreso il solito don Raffaele). Potere della Fiction!
Quale sarà il ruolo di don Pietro nella seconda serie? Si vendicherà della morte della moglie? Guiderà la lotta contro gli scissionisti? Riuscirà a salvare il figlio? Una cosa è certa: doveva essere un boss moderno, diverso, un imprenditore del crimine ma il soggetto è sfuggito di mano agli autori; anche loro, come i tanti giovani che ne hanno imparato a memoria le battute, sono rimasti affascinati dal “professore di Vesuviano”.