Non si muore per un litigio. Le donne che stanno compiendo un percorso di autodeterminazione cercando di rendersi autonome da una relazione abusante, costruendo a fatica un nuovo progetto di vita, non si tolgono la vita. Ce lo ricorda, ancora una volta, il femminicidio di Giada Zanola, gettata dal suo compagno da un cavalcavia a pochi metri dalla loro abitazione.
Partendo da quello che era sembrato un suicidio, attraverso l’allarme diramato intorno alle 3.30 nella notte del 29 maggio, per la presenza di un corpo lungo l’autostrada A4. Un corpo che ad un primo esame sembrava riportare ecchimosi e fratture compatibili con una precipitazione dall’alto ed i conseguenti impatti con i mezzi in corsa. Era pertanto stato ascoltato a sommarie informazioni Andrea Favero, il compagno di Giada, padre del loro bambino di tre anni.
L’uomo, in quella prima circostanza nella mattina del 29 maggio riferiva sì di avere con Giada un rapporto che negli ultimi tempi era piuttosto burrascoso, ma anche che la sera del 28 maggio era trascorsa tranquillamente. Avevano anche avuto un rapporto e poi si erano addormentati.
L’indomani mattina, quando si era svegliato intorno alle 7.30, non l’aveva trovata nel letto ed aveva quindi pensato che Giada fosse andata al lavoro. Ne era tanto certo da mandarle un messaggio nel quale le chiedeva se fosse al lavoro, non perdendo l’occasione però di rimproverarla perché uscendo non aveva salutato né lui né il bambino.
Quello che colpisce da questo riferito è il livore, il disprezzo con il quale Favero parla di Giada, svalutandola come compagna e come madre. Presto le telecamere situate nella zona (una pubblica che riprende quel tratto autostradale e parte del cavalcavia, un'altra privata che invece riprende il tratto di strada dall’abitazione di Giada e Favero) hanno raccontato un’altra dinamica dei fatti.
Giada verrebbe ripresa mentre esce dall’abitazione e si allontana a piedi quando, poco dopo, Favero la raggiunge con la sua automobile e la costringerebbe a salire, recandosi in direzione del cavalcavia. Alla luce di questi elementi Favero viene formalmente indagato e a questo punto interrogato.
È nel corso dell’interrogatorio che fornisce delle parziali ammissioni, riferendo di un litigio avvenuto la sera del 28 maggio, che quindi non era stata una serata tranquilla per lui e Giada, al culmine del quale Zanola si sarebbe allontanata a piedi. Lui l’avrebbe poi raggiunta in auto. Il resto del riferito è un susseguirsi di vuoti e "non ricordo", fatta eccezione per le minacce di portargli via il bambino che Giada gli avrebbe rivolto.
Non ricorda Favero che cosa sia successo in quel cavalcavia, ma solo di essere “tornato a casa da solo” e di essersi messo a letto con il bambino, che nel corso della notte si sarebbe svegliato più volte lamentando un mal di gola, circostanze nel corso delle quali però l’uomo non si sarebbe reso conto del fatto che Giada non fosse lì.
“In quel momento io avevo solo mio figlio nella testa”, avrebbe riferito. Un figlio privato per sempre della presenza di sua madre. Perché le indagini svolte fino a questo momento, anche attraverso l’ascolto delle persone che conoscevano la coppia e conoscevano Giada, restituiscono un’altra verità. Giada voleva emanciparsi da quella relazione che non solo non la rendeva più felice ma anzi, la spaventava. Lo avrebbe riferito proprio lei ad una sua amica, alla quale avrebbe raccontato di violenze quasi quotidiane confessandole il suo timore di essere “drogata” da Favero, mostrandole le foto di ecchimosi che l’uomo le aveva procurato nel corso di un’aggressione avvenuta il 27 maggio.
Giada aveva paura. All’uomo che amava aveva raccontato di frequenti aggressioni subite da Favero, in alcune delle quali il 39enne era arrivato ad afferrarla per il collo. Una relazione maltrattante, all’interno della quale la violenza di Favero sarebbe acuita nel tempo, tanto da portare Giada a temere per la propria incolumità e forse a spingerla, quella notte, ad allontanarsi di casa (lasciando il bambino nel letto) nel tentativo, vano, di sfuggire ad una nuova
aggressione.
La scelta di Giada di annullare il matrimonio previsto per il prossimo settembre, di interrompere la
relazione, il nuovo lavoro, insomma, la sua volontà di autodeterminarsi, sarebbero alla base del movente del suo femminicidio. Da parte di un uomo, il suo compagno, che dopo averla lanciata dal cavalcavia (probabilmente anche nel tentativo di distruggere il corpo cancellando così le prove di un’aggressione) sarebbe tornato a casa, si sarebbe messo nel letto con il loro bambino e si sarebbe addormentato dimostrando non solo una totale assenza di empatia, ma anche il valore che Giada aveva realmente per lui: quello di un oggetto di proprietà.
Un oggetto che, nel momento in cui non ha aderito più alle sue aspettative, andava eliminato, senza rimpianto, con assoluta freddezza e tranquillità.