Se ne parlava almeno dal 2017, ma ora è ufficiale: l’Indonesia sposterà la propria capitale dalla storica città di Giacarta, ogni anno più vulnerabile alle ricadute del riscaldamento globale, in una metropoli che verrà costruita da zero. La futura capitale indonesiana sorgerà nella regione di Kalimantan, nella parte indonesiana dell’isola del Borneo, e si chiamerà Nusantara, che in giavanese significa “altre isole” o “arcipelago”. L’idea del governo indonesiano, infatti, è di approfittare dello spostamento forzato della capitale per decentralizzare l’attività economica del paese e incentivare una ridistribuzione della popolazione, oggi concentrata in massima parte a Giacarta.
C’è molto da imparare da questa storia, e non solo perché è la prima volta che un paese decide di “abbandonare” la propria capitale a causa della crisi climatica, ma anche perché gli errori fatti nella gestione della vecchia capitale possono fungere da cartina tornasole di un approccio all’insediamento e allo sviluppo che si sta rivelando problematico ovunque.
Una città non affonda per caso
La storia di Giacarta comincia intorno al XIII secolo d.C., quando, dopo essersi impadronito dell’Isola di Giava, il regno di Sunda trasforma gli insediamenti attorno all’estuario del fiume Ciliwun in un importante porto commerciale. Non è un territorio ideale per svilupparci una città, l’acqua è una presenza ingombrante fin da subito, tanto che le prime case vengono costruite su palafitte. Questo non impedisce all’insediamento portuale di crescere decennio dopo decennio, fino a diventare un centro nevralgico per tutto l’arcipelago indonesiano. Ma se oggi Giacarta è la più grande città sconfitta dalle acque è colpa (o merito, dipende dai punti di vista) degli olandesi, che dopo aver stabilito il proprio dominio nel 1619, e aver rinominato la città Batavia, fanno fiorire l’area urbana facendola diventare un polo attrattivo per immigranti cinesi e arabi.
A 73 anni dalla proclamazione di indipendenza della Repubblica Indonesiana, Giacarta conta 10 milioni di abitanti (il 60% di tutto il paese), è sede di metà delle attività economiche indonesiane, e vanta il centro finanziario in più rapida evoluzione al mondo. Sfortunatamente, è anche anche una delle metropoli che stanno affondando più rapidamente. E il motivo non è solo l’innalzamento delle acque dovuto al riscaldamento globale, ma anche la sovrappopolazione.
Oggi il vecchio territorio del regno di Sunda ospita talmente tante persone che è costantemente a corto di acqua potabile, il che negli anni ha portato le amministrazioni di Giacarta ad attingere senza remore alle falde acquifere sotterranee, prosciugandole gradualmente e portando il terreno dove sorgono gli edifici a compattarsi sempre di più. Questo processo di subsidenza è ormai talmente rapido che Giacarta affonda ogni anno di circa 25 cm, il che significa che la città è ogni anno più vulnerabile all’innalzamento delle acque previsto di qui ai prossimi decenni (e per certi versi, ormai, inevitabile), ma anche che è già oggi soggetta a frequenti allagamenti. Se dal 2017 il governo indonesiano ha lavorato allo scopo di trasferire la capitale altrove è anche perché negli ultimi anni, a causa di piogge sempre più intense e imprevedibili, è costantemente allagata.
Il peccato originale urbanistico: edificare in braccio al mare
Quello che sta succedendo sull’isola di Giava si verifica sempre più di frequente, in punti del globo lontanissimi tra loro, e nonostante le marcate differenze storiche e culturali, le ragioni sono quasi sempre le stesse. Prendiamo ad esempio il caso della Louisiana, un territorio relativamente giovane, formato dal sedimento sparso nei secoli dal Mississippi e dunque già naturalmente soggetto alla subsidenza. Ora che il fiume è intrappolato in alti argini, tutto il sedimento che prima nutriva il suolo finisce sputato nel Golfo del Messico. Abbiamo quindi un terreno che tende a compattarsi, che non viene nutrito, e che per decenni è stato trivellato a ripetizione per ricavare gas e petrolio. Non stupisce allora che la città di New Orleans stia sprofondando, e con essa tutta la Louisiana meridionale, come non stupisce che in alcune cittadine (come Isle de Jean Charles) i cittadini si trovino già ora costretti ad abbandonare le proprie case per trasferirsi altrove. Situazioni simili si registrano ovunque, dalla Florida, dove a Miami Beach si sono dovute sollevare le strade di un metro per evitare i continui allagamenti, al Galles, dove il villaggio di Fairbourne è condannato a sparire tra le maree; da Kiribati, una piccola nazione del Pacifico che nel 2014 si è vista costretta a comprare del terreno nelle isole Fiji così da avere un posto dove trasferire i suoi 100.000 abitanti, a Taro nelle Isole Salomon, dove un’altra città dovrà essere abbandonata e ricostruita in una zona più elevata; e poi ancora Malè, Bangkok, Amsterdam, Venezia, Basra: la lista di città che rischiano di essere parzialmente o completamente sommerse entro i prossimi vent’anni ci dà un’idea di quanto il problema si presenti già come attuale, e di come un intero modello di sviluppo vada messo in discussione.
È infatti sufficiente andare a leggersi la storia di molte di queste città per rendersi conto di un pattern diffuso: in molti casi, queste città sorgono su terreni che in passato non ospitavano insediamenti importanti, spesso erano occupati da popolazioni indigene che, avendo al centro della propria cultura un equilibrio dinamico con l’ambiente circostante, si guardavano bene dal costruire abitazioni stabili in zone instabili. Una delle manifestazioni già osservabili della crisi climatica consiste nel verificarsi di fenomeni meteorologici sempre meno prevedibili; in parole povere: piove in modo meno regolare, ci sono più uragani, alluvioni più devastanti, mareggiate più intense. Di conseguenza, gli insediamenti sulla costa sono sempre più vulnerabili. Ne abbiamo avuto prova quest’estate quando a Surfside, in Florida, un palazzo di dodici piani, di costruzione abbastanza recente e in condizioni apparentemente buone, è crollato come un castello di sabbia abbandonato alle onde; e ne abbiamo prova ogni mese, in ogni parte del globo. Ma ancora ciò non è sufficiente a innescare un cambio di direzione, e questo perché storicamente è sulle coste che si accumulano le attività economiche e gli insediamenti urbani, ed è ancora lì che tende a spostarsi la ricchezza.
Le città dovranno imparare a convivere con l’acqua
Nel frattempo, il parlamento indonesiano ha approvato la legge che guiderà il trasferimento della capitale. Parliamo di un progetto da 56 miliardi di euro, 29 per costruire la nuova città e 35 per impedire a Giacarta di affondare. Già, perché la vecchia capitale – che rischia di essere sommersa per 1/3 entro il 2050 – non verrà abbandonata, verrà solo parzialmente svuotata e continuerà a ospitare attività economiche e residenti. Il governo indonesiano ha dunque deciso di erigere una monumentale barriera marina a nord della città, che però potrebbe rivelarsi ben poco utile, considerando che anche il fondale su cui verrà installata sta sprofondando. Per evitare che questo processo di inabissamento continui bisognerebbe smettere di pompare acqua dalle falde sotterranee, il problema è che non c’è altro modo di fornire approvvigionamento idrico ai venti milioni di persone che ogni giorno transitano per la città. Nel frattempo, si sta valutando di sopperire alla futura scomparsa di intere porzioni di terreno costruendo isole artificiali con la sabbia ricavata dai fondali, una strategia che stanno adottando più o meno tutte le città che si ritrovano a pochi metri sopra il livello del mare, come ad esempio Lagos, Hong Kong o L’Aia. Ma le isole artificiali non sono una soluzione ragionevole: innanzitutto perché non sappiamo ancora quanto stabili e durature si riveleranno, soprattutto considerando il tasso di edificazione a cui sarebbero sottoposte, e in secondo luogo perché le operazioni di recupero di sabbia vanno a modificare la fisionomia dei fondali, col rischio di creare erosione costiera.
Nell’ultimo secolo in tutto il globo il livello dei mari si è innalzato di circa 20 centimetri, e nei prossimi decenni questo processo è destinato ad aggravarsi. Significa che moltissime città costiere si trovano oggi costrette a progettare strategie di adattamento lungimiranti. Purtroppo, nella maggior parte dei casi le risposte a questa criticità si limitano a costosissime strutture (come il MOSE a Venezia), che potranno solo tamponare il problema nel breve termine, per poi rivelarsi sostanzialmente inutili di qui a fine secolo. Come suggerisce l’oceanografo John Englander nel saggio "Moving to higher ground", non si tratta soltanto di prepararsi ai prossimi vent’anni, ma almeno ai prossimi cento; questo vuol dire che invece di limitarsi a erigere barriere, sarebbe più utile riprogettare le città esistenti in modo che possano convivere con l’acqua: c’è chi sta costruendo edifici con il piano terra sollevato, chi sta costruendo bacini di raccolta sotterranei per incamerare acqua durante le inondazioni, chi addirittura sta pensando di trasformare alcune strade in canali. Anche pianificare un arretramento degli insediamenti verso l’entroterra è una soluzione sensata, a patto di implementarla per tempo, e non all’ultimo momento come sta succedendo a Giacarta.
Ma la vera priorità dovrebbe essere custodire le barriere naturali che già garantiscono una resilienza di fronte all’avanzare delle acque. Se Giacarta oggi è così vulnerabile è anche perché non può usufruire della protezione naturale fornita dalla foresta di mangrovie che un tempo la incorniciava. Nusantara verrà costruita in una zona ora occupata da foreste analoghe, e già si prevede un pesante impatto sull’ecosistema locale. La speranza è che chi sta pianificando la nuova capitale tenga conto di questi elementi, altrimenti il problema sarà rimandato solo di qualche decennio.