Francesca Masi ha quarantatré anni ed è una psicologa. Una psicologa bravissima, tra l’altro, e non perché io sia andato in terapia da lei o perché abbia parlato con qualche suo paziente: ma perché ha un sorriso così bello e degli occhi così dolci che ti fanno subito stare meglio.
Francesca ha un figlio che fa la scuola primaria: Leo, o il “Panda Minore” come lo chiama lei. Ha anche un marito e tre gatti, Francesca, e un cancro. Sì, lo so che l’ho buttato lì in mezzo, come se nulla fosse, ma davvero lei riesce a rendere familiare anche quella che è, o dovrebbe essere, una tragedia.
Due anni fa le hanno diagnosticato la mielofibrosi idiopatica cronica, una rara malattia nel midollo osseo per la quale Wikipedia concede da tre a cinque anni di vita. Me l’ha raccontato Francesca stessa, che lo ha scoperto cercando su Google subito dopo che il medico le sentenziasse quel nome complicatissimo.
Ricevuta quella notizia ricorda la netta sensazione di sentirsi divisa in due: da una parte una Francesca sensibile e disperata, dall’altra quella lucida ed estremamente efficiente. Una lei che si lasciava andare la notte in un fiume di pensieri angosciosi, trascinata dalla paura di morire, mentre un'altra lei si muoveva di giorno tra telefonate e mail alla ricerca di un medico che capisse qualcosa della sua malattia.
Ognuno di noi cresce associando una profonda paura alla parola “cancro”. Così è stato per Francesca: il cancro per lei, fino a non troppi anni fa, non era una semplice malattia ma il “male” assoluto, tanto da essere innominabile. Nella sua famiglia e tra i suoi amici si diceva, appunto, abbassando il tono di voce: “ha un male, un malaccio, un brutto male”. Per questo motivo il suo cervello dopo la diagnosi si è subito ribellato all’idea di dover passare da donna carina, intelligente e simpatica, anche un po’ oggetto di invidia, a “malaticcia”, oggetto di pietismo e commiserazione.
“Non volevo perdere la me che avevo sempre conosciuto. – racconta lei – Da subito, oltre alla paura di morire, mi si è insediata nella testa la paura di vivere da malata di cancro. Io sono una psicologa, con le paure ci lavoro: con il passare dei giorni ho iniziato a ragionare su come poter integrare la mia malattia con la me stessa che io avevo costruito fino a quel momento. Perché se io non ho responsabilità rispetto a quello che accade dentro al mio midollo, di sicuro mi sento responsabile di ciò che accade dentro la mia testa. Anche perché le mie reazioni, positive o negative che siano, risuonano in chi mi è vicino e mi vuole bene.”
A tal proposito, sebbene sopporti l’idea che il cancro possa farla star male, Francesca non regge il pensiero che possa rovinare la vita a suo figlio: per questo motivo prova a fare il possibile affinché le sue paure non investano anche la sua vita di bambino:
“Se non posso impedire che mio figlio rimanga orfano, perlomeno posso evitare di essere una madre depressa e triste, e di conseguenza evitare di dargli una vita infelice. Così ho iniziato a ripetermi come un mantra: “Hai il cancro! Hai il cancro! Hai il cancro!” per familiarizzare con la parola e avere sempre meno paura. Mi sono presa cura, oltre che del mio corpo, anche della mia mente e delle mie emozioni. Adesso posso affermare di aver trovato la strada per riuscire a convivere con il cancro senza che lui abbia schiacciato la mia vita affettiva, le mie relazioni, la mia vitalità emotiva.”
Il percorso per arrivare fin qui è stato lungo, faticoso e impegnativo. Fondamentale per questo è stato raccontare questo scorcio di vita in un libro dal titolo “Tu sei oncologica, vero? (Sì, però sono anche psicologa, mamma e tante altre cose)”, nel quale parla apertamente della sua malattia con un tono ironico e auto-ironico, troppo spesso – purtroppo – tragicomico.
Nel suo pezzo di autobiografia, infatti, Francesca racconta non solo le sue sensazioni ma anche le mille disavventure che l’hanno investita: dalle infermieri incompetenti ai medici a dir poco empatici, fino alle diverse reazioni di chi le sta intorno alla notizia di quell’“ospite”, per citare Terzani, dentro di lei. In tutto questo, non mancano stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni riguardanti i malati che, in qualche modo, si vedono ogni giorno privati della loro identità di persona.
“Non ho scritto con l’intenzione di dare il buon esempio o di insegnare qualcosa. Ho scritto per raccontare un’esperienza personale e irripetibile, non per fornire informazioni manualistiche e oggettive. Ho descritto gli incontri belli e quelli brutti, gli errori e le scelte azzeccate, pensando che chi legge e si trova a dover attraversare “lo stesso mio paese” possa usufruire del mio racconto, non per percorrere i miei stessi passi ma per accostarsi al viaggio in modo più attrezzato."
Ho incrociato Francesca perché la mia migliore amica, sua omonima, mi ha fatto conoscere la sua storia. Ho divorato il suo libro in un giorno: ho riso, mi sono incazzato e ho versato qualche lacrimuccia. Ho scoperto che i suoi medici hanno trovato una cura sperimentale che le dà una speranza di vita parecchio più lunga di quella prevista da Wikipedia. Ho capito che Francesca ha ripreso a ridere e scherzare, godendosi la vita non proprio come prima ma in modo diverso, meno superficiale e più consapevole.
“Credo di esser riuscita a trovare il mio modo per convivere con la paura di morire, senza negarla ma senza neppure farmi schiacciare. E no, non credo più di essere una malata da commiserare. Sono la stessa quarantenne carina, che può darsi che muoia prima del previsto, ma che sta vivendo una vita felice, in compagnia di un figlio vispo, un marito, tre gatti… e la mia testolina matta che non ha più bisogno di ripetersi che ha il cancro, ma che con il cancro adesso ci parla da pari a pari: “Signor cancro, tu di sicuro potrai rendermi malata, ma non credere di essere capace di rendermi infelice!”.”