Fine vita, Martina Oppelli: “Non voglio pentirmi di non essermi suicidata quando potevo usare le mani”

Martina Oppelli convive da più di 20 anni con la sclerosi multipla, malattia che l’ha portata progressivamente a dipendere in ogni cosa dagli altri. La donna ha chiesto il suicidio medicalmente assistito, ma la sua Asl glil’ha negato. Il suo racconto a Fanpage.it.
A cura di Chiara Daffini
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"Non ho intenzione di finire la mia vita pentendomi di non essermi suicidata quando ancora potevo usare le mani". Va dritta al punto Martina Oppelli, architetta 49enne di Trieste affetta da sclerosi multipla secondaria progressiva, una malattia che negli ultimi decenni le ha tolto ogni autonomia nella vita quotidiana, costringendola a dipendere dagli altri anche per tossire o soffiarsi il naso.

"In assenza di una legge nazionale che regolamenti l'aiuto alla morte volontaria, cioè l’accesso al suicidio assistito, in Italia questa scelta di fine vita è normata dalla sentenza numero 242 del 2019 della Corte costituzionale sul caso Cappato-Antoniani, che ha legalizzato l’accesso alla procedura ma solo a precise condizioni di salute delle persone", precisa l'avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale dell'associazione Luca Coscioni, al cui team legale si è affidata Oppelli.

"La Consulta – prosegue Gallo – ha disposto, con una sentenza di incostituzionalità parziale dell’articolo 580 del codice penale, che la persona malata che vuole accedere all’aiuto alla morte volontaria (suicidio assistito) deve essere in possesso di determinati requisiti: deve essere capace di autodeterminarsi, essere affetta da patologia irreversibile, che tale patologia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona reputa intollerabili e che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale".

Tale istanza, però, è stata negata a Martina dall'Asl di Trieste , secondo la quale la donna non sarebbe dipendente da trattamenti di sostegno vitale, come macchinari o medicinali. Oppelli racconta a Fanpage.it quella che lei non vuole definire "battaglia", ma rivendicazione di un diritto: poter morire nel letto di casa sua attraverso il suicidio medicalmente assistito.

Martina, come è iniziato tutto?

"Già verso il 1996 ho cominciato ad avere sintomi strani. Stiamo parlando di una fatica terribile, una stanchezza a cui io non ero abituata. Mentre prima nel camminare per le vie di Venezia, città in cui ai tempi studiavo Architettura, ascoltavo il suono dei miei passi sul selciato, ed era un piacevole ticchettio, poi quei passi erano diventati tonfi pesanti. Stavo male, non ero abituata a non funzionare".

Come ha scoperto di essere malata?

"Ho cominciato a fare analisi su analisi e nel 2002 ho preso un autobus col mio tubone di disegni, i bazooka con i quali giravano una volta per strada gli aspiranti architetti, e mi sono presentata all'ospedale nel reparto di neurologia con un'impegnativa urgente per una visita. La diagnosi è arrivata ad aprile dello stesso anno, grazie a una risonanza: sclerosi multipla".

Qual è stata l'evoluzione della sua malattia?

"Non mi sono mai ripresa: dopo ogni attacco, non ho mai ripreso in toto le funzionalità del mio corpo e nel 2006 è stato riscontrato che la mia malattia aveva un carattere progressivo e irreversibile. Cercavo di portare avanti la vita di prima, per quanto possibile, ma non era più la mia vita di prima.

La sua reazione qual è stata, inizialmente?

"Se da un lato mai avrei voluto finire su una sedia a rotelle, dall'altro avevo la curiosità di vedere che cosa c'era dopo e cosa si poteva fare ancora per migliorare le mie condizioni, ma la progressione è stata sempre più evidente: se prima non riuscivo a correre dietro gli autobus, poi ho cominciato a mettere via i soldi per riuscire a prendere il taxi per andare in ufficio. Mi vergognavo, quindi chiedevo all'autista di lasciarmi qualche metro prima, non volevo che pensassero che fossi viziata. Nel 2011 ho iniziato a non riuscire più a muovermi nel letto, nel 2012 a non poter mangiare né bere da sola e nemmeno andare in bagno, per questo sono andata in ufficio con la badante finché non mi è stato accordato il telelavoro. L'ho sempre fatto col sorriso, ma con il tempo è diventato tutto insostenibile".

Quando ha preso la decisione di ricorrere al suicidio medicamente assistito?

"Già nel 2018 avevo preso la decisione, che è diventata definitiva nel 2023. Quell'anno ho passato venerdì, sabato e domenica di Pasqua a perfezionare l'istanza prima per la Svizzera e poi a informarmi su come poterlo fare in Italia, avendo saputo della possibilità del suicidio assistito attraverso l'azienda sanitaria locale. Ed è stata per me una decisione irrevocabile, serena, ponderata e cosciente. Mi sento di aver avuto una vita piena, sono soddisfatta di ciò che ho fatto, di ciò che ho avuto, ma vivere così ora è intollerabile".

La Asl di Trieste ha però rigettato la sua richiesta per ben due volte.

"Sì, mi hanno dato il secondo diniego il 13 agosto 2024. Perché? Mi chiedo io qual è l'alternativa plausibile che mi propongono? Con i legali che mi seguono abbiamo quindi deciso di fare denuncia nei confronti della Asl di Trieste per tortura privata, perché di fatto vivere come vivo io è una tortura: di notte devo mettere delle protezioni sulle mani per non ferirmi, ho il pannolone, nelle 2 ore che do libere alle badanti che mi assistono sono da sola e devo rimanere immobile con la testa reclinata sullo schienale. Lavoro da casa, al computer, usando i comandi vocali, perché nemmeno con gli occhi riesco a muovere il mouse attraverso il software apposito. Per tossire utilizzo una macchina, perché da sola non ce la faccio, così come a soffiarmi il naso. Non è normale farsi imboccare dal 2012, farsi dar da bere, farsi pulire, non riuscire nemmeno a stringere la mano alle persone. Sono sfinita".

Però non si arrende.

"Non è una battaglia politica, non può esserlo, e non è solo una mia istanza. Quando è arrivato il primo diniego, a gennaio 2024, avevo già la luce verde dalla Svizzera, avrei potuto andare a morire lì, ma il punto è che se io lascio perdere questo percorso senza ottenere nulla in Italia, chi verrà dopo di me dovrà affrontare lo stesso".

Che cosa dovrebbe cambiare, secondo lei?

"È giusto cominciare a discutere una legge nazionale che abbia un senso e tenga in considerazione ogni sofferenza, perché ogni dolore è assoluto nel momento in cui viene vissuto e va rispettato. Noi non siamo delle macchine, dunque non può essere una macchina – come lo è stato nel mio caso, per il rigetto della richiesta di suicidio assistito – la misura della sofferenza umana.

Quindi intende andare avanti nella sua rivendicazione?

"Uso i comandi vocali per tutto: non ho intenzione di finire la mia vita in stato vegetativo, pentendomi di non essermi suicidata quando ancora potevo usare le mani".

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