Fatima, morta a 3 anni cadendo dal balcone: per la Procura venne gettata dal compagno della mamma
Omicidio volontario aggravato: è questa l'accusa per la quale Mohssine Azhar – il 32enne di origine marocchina chiamato in causa per la morte di una bambina di tre anni precipitata, lo scorso gennaio, dal balcone di una palazzina a Torino – è stato rinviato a giudizio. Il processo si aprirà in Corte d'assise il 25 gennaio.
La bambina, di nome Fatima, era la figlioletta (nata da una relazione precedente) di Lucia Chinelli, la giovane donna con cui Azhar aveva una relazione sentimentale. Secondo la Procura del capoluogo piemontese, l'uomo la gettò volontariamente dal balcone perché aveva litigato con la ragazza: sono state contestate anche le aggravanti della crudeltà e dei futili motivi.
Azhar ha sempre affermato che quella tragedia fu in realtà un incidente e che la piccola le cadde dalle braccia mentre stavano giocando a "vola vola". Una versione, questa, in contrasto con quella della mamma che, in un primo momento, aveva affermato di non essere presente quando si consumò il dramma, per poi tornare sui suoi passi ed accusare l’uomo di aver "lanciato apposta la piccola" dal balcone dopo un litigio scoppiato perché la donna voleva riportare la bimba a casa, al piano di sotto.
Una tesi, questa, che sarebbe supportata anche dall’esito dell’esame autoptico: la piccola non sarebbe infatti caduta verticalmente ma avrebbe effettuato una parabola prima di finire a terra. Non solo: il corpo della bimba sarebbe stato trovato a circa tre metri e mezzo dal confine disegnato dai balconi. Di più: se la piccola fosse caduta verticalmente avrebbe sbattuto contro la tettoia. Tutti elementi che non fanno escludere che la caduta sia stata voluta: ergo, che la piccola sia stata lanciata.
Di certo, quel giorno Azhar era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e di alcol che stava consumando in casa con degli amici. "È pronto – ha dichiarato il suo difensore, l'avvocato Alessandro Sena – ad assumersi le proprie responsabilità ma confida che il processo giunga a una conclusione il più aderente possibile rispetto a quanto accadde quel giorno: non fu un gesto deliberato. Ci batteremo perché venga riconosciuta la fattispecie colposa, e non la volontarietà".