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Essere choosy: da Elsa Fornero al neomelodico Tony Polverino

Che cosa accade se la Neet (not in education, employment or training) generation, ossia i giovani che non studiano e non lavorano, finisce nella mani di un paroliere di canzoni neomelodiche?
A cura di Marcello Ravveduto
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Tony Polverino " Liev man " Ideato e Diretto da Enzo De Vito. Video ufficiale.
Tony Polverino " Liev man " Ideato e Diretto da Enzo De Vito. Video ufficiale.

Mentre il mondo impazzisce alla ricerca dei Pokemon, sulla mia bacheca Facebook appare, con tanto di dicitura “sponsorizzato” e di hashtag #BOOOOM, il video ufficiale del neomelodico Tony Polverino, ideato e diretto, sottolinea il social, da Enzo De Vito. In prima battuta ti viene da pensare: “Maledetti algoritmi!”, ma poi la curiosità ti spinge a guardare il mitico Polverino che si dimena davanti alla telecamera alla ricerca del suo pubblico. Ma prima di andare avanti facciamo un passo indietro.

Vi ricordate quando l’allora ministra Elsa Fornero, riferendosi ai giovani italiani, usò il termine choosy? Si scatenò un putiferio sia perché la frase fu interpretata in maniera negativa, sia perché la parola serviva ad etichettare un’intera generazione senza considerare le difficoltà sociali ed economiche del paese travolto da una crisi senza precedenti. Choosy sta per "esigente", "pignolo", "schifiltoso" o "schizzinoso". Cosa voleva dire la Fornero? La ministra rimproverava i giovani italiani che non riuscivano a trovare il lavoro dei loro sogni, né tantomeno uno che li appagasse minimamente. Per l’ex ministra, i giovani avrebbero dovuto sperimentare di tutto e cercare di realizzarsi a piccoli passi dal punto di vista lavorativo e diceva: «Non bisogna mai essere troppo ‘choosy'! Meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale».

Ma non è stata la prima volta che esponenti governativi si esprimevano in tal modo nei confronti delle nuove generazioni. Nel 2007 il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, presentando la finanziaria aveva affermato: «Mandiamo i bamboccioni fuori di casa. Incentiviamo a uscire di casa i giovani che restano con i genitori, non si sposano e non diventano autonomi. È un'idea importante». Anche in quel caso ci fu chi si ribellò all’etichettatura rispondendo: «Quando il ministro sarà riuscito a trasformare l'Italia in un Paese dove le banche concedono mutui anche ai lavoratori precari e dove gli stessi lavoratori precari possano, nonostante l'esibizione di buste paga che danno poche certezze, rateizzare gli acquisti, allora forse cercheremo di capire se dietro quel suo "bamboccioni" ci sia una fine analisi sociologica. Oggi è solo un infelice epiteto che può sicuramente guadagnargli la simpatia di qualche pasciuto e arrivato editorialista».

I ministri affondavano il dito nella piaga della cosiddetta Neet (not in education, employment or training) generation, ossia i giovani che non studiano e non lavorano. Fino al 2010 le statistiche europee indicavano l'Olanda come il paese con il minor numero di neet, seguito dalla Germania e poi dalla Polonia, dal Belgio, da Malta e da Cipro. Il primato spettava all'Estonia accanto alla quale si posizionavano la Spagna, la Bulgaria e l'Italia. Nel nostro paese, secondo le stime dell’ormai defunto Cnel, prima della crisi la percentuale dei neet si aggirava intorno al 16% nei giovani tra i 16 e i 24 anni, mentre tra quelli in un'età compresa fra i 25 e i 30 anni era del 24%. Con il peggioramento dei dati economici queste percentuali sono decisamente cresciute, passando al 19% nel primo gruppo e al 28,8% nel secondo. Si rafforza, così, nell’immaginario social l’idea di una nazione in declino. Ai disoccupati si aggiungono gli “scoraggiati”. Un dato certificato da Eurostat lo scorso maggio. Secondo l’istituto di ricerche statistiche un terzo dei neet europei sarebbe italiano. Nello specifico: cercano un lavoro attivamente, ma non sarebbero pronti ad accettarlo immediatamente, poco più di 100 mila persone e il 60% degli inattivi che vorrebbero un lavoro è rappresentato da donne.

Ora che cosa accade se una materia così delicata e complessa, le cui motivazioni sono rintracciabili in una miscellanea inestricabile di condizioni sociali, vincoli economici, ritardi civili, tare culturali e pulsioni emozionali, finisce nella mani di un paroliere di canzoni neomelodiche? Semplice: diventa una macchietta risibile il cui protagonista è il solito “chiattone” imbranato. Meglio ricordare che questo stereotipo canzonatorio, molto diffuso nelle letteratura popolare partenopea, non è stato sempre bonario. Basta ricordare la violenza subita da un giovane quattordicenne: nel 2014 a Pianura fu deriso per il suo peso e seviziato con un compressore da tre ventiquattrenni.

Torniamo alla canzone di Polverino. Il titolo in napoletano è evocativo: “Liev man” che significa “Lascia perdere”. Come spesso accade nei dialetti meridionali l’incitamento ha il tono della negazione, dell’impossibilità di sfuggire ad un destino di sconfitta. In luogo di un esortativo “Ce la puoi fare” o “Provaci ancora”, si trancia l’interlocutore con un’asserzione a cui non si può replicare: “Liev man”, ovvero: “è inutile che ti affanni tanto non riuscirai mai a cambiare il tuo status di vittima”.

Il protagonista del video è un ragazzo obeso. Nella prima scena lo si vede disteso sul letto, mentre russa, con il ventre che impalla la telecamera. Nelle scene seguenti scorrono, con una rapidità tipica del genere “comiche”, tutta la serie di fallimenti a cui è destinato il “chiattone”. Ma andiamo con ordine. Dopo l’introduzione ritmica della roncopatia, scopriamo che il giovanottone è sposato con una ragazza di eguali dimensioni. La donna si affaccenda in una cucina di quelle che un tempo avresti comprato dalla mitica “Concetta Mobili”. Lei si affanna tra i fornelli e l’asse da stiro e lui sposta gli oggetti in giro, si siede a guardare, si rialza, apre e chiude gli sportelli della credenza e rimane in piedi senza saper cosa fare. Ora è per strada. Entra in un magazzino per chiedere lavoro ma il titolare lo scaccia come se fosse un appestato. È di nuovo a casa in cucina. Prova a incollare i parati ma si “arravoglia” nella carta senza risultati, finché la moglie non lo scaccia via. È addormentato sul divano mentre lei sta lavando il pavimento, si sveglia e si piazza tra i piedi della consorte che lo spinge verso l’uscio sbattendolo fuori casa.

Nella scena successiva la moglie gli buca con il ferro da stiro una camicia che lui indosserà con disinvoltura mostrando il capezzolo pendente. Prova, poi, a cambiare una lampadina fulminata con la mazza della scopa e si improvvisa persino cantante neomelodico pur di trovare qualcosa da fare, ma viene brutalmente allontanato dal video, talmente è stonato. Lo vediamo, quindi, in un campo di calcetto mentre si affanna a correre dietro al pallone con una maglia stretta che evidenza il multistrato di adipe e un pantaloncino che lascia scoperta tre quarti di mutanda. Alla fine dopo una lunga fila di errori e “panzate” stramazza al suolo senza forze. Tornato a casa accusa la moglie di non saper cucinare e lei, montata la rabbia, gli molla una sberla spingendogli la testa nel piatto. Nella scena successiva la “dolce metà” gli chiede di aggiustare il tubo della doccia, ma anche in questo caso il fallimento è totale. Anche quando deve appendere un piccolo quadro al muro combina un guaio facendolo cadere e fracassando la cornice.

Nell’ultima scena lo ritroviamo supino sul letto matrimoniale mentre dorme ronfando. La moglie entra nella stanza e gli riversa addosso, in un dialetto ultra popolano incomprensibile, tutta la rabbia accumulata e terminando dice: «Alzati vai, lascia perdere, tornate da tua madre!». Non solo non trova lavoro (e non ha studiato), ma non è in grado nemmeno di fare l’uomo di casa e così perde anche la moglie e la possibilità di costruire una famiglia.

Il testo non è altro che la descrizione delle scene, ma le frasi hanno tutte un sapore ironico mettendo in risalto quanto questo fallito congenito sia "esigente", "pignolo", "schifiltoso" e "schizzinoso", in una parola choosy. Si lamenta della moglie che non sa stirare, non sa lavare, non sa cucinare, pretendendo di essere servito e riverito come un buon marito, ma non sa tenersi un “mestiere”, né svolgere banali lavori di manutenzione in casa. Ha provato a fare l’idraulico ma “’o masto” lo ha cacciato: «il tubo che hai aggiustato lo hanno trovato a mare a galleggiare». È un incapace totale: «Nemmeno una lampadina… sai avvitare». Come spesso accade, quando si è troppo sdegnosi per la “fatica”, si prova a fare soldi con la musica e con lo sport ma implacabilmente Tony Polverino sottolinea: «Canti una canzone, però non la sai cantare./ Ti sei fatto le ciglia, le mani e la lampada, ma la voce non c’è./ Lascia perdere le canzoni, prendi la cazzuola./ Vuoi fare Maradona, però non sai palleggiare,/ con questa pancia solo la palla puoi fare;/ sciogli i lacci e vai a fare la doccia».

L’accusa più grave arriva nel ritornello: «Sei completamente “fulminato”, è meglio che vai a dormire/… Nemmeno la spesa sei capace di pagare e cerchi i soldi a tua madre». Insomma quest’omaccione di circa trent’anni (che assomiglia, anche fisicamente, a Jenny Savastano prima della trasformazione honduregna) è un essere inutile, dipendente dalla famiglia d’origine, incapace di avere un ruolo nella società sia come marito, sia come forza lavoro. La canzone, video e testo, sarebbe divertente se non fosse che l’etichetta di disadattato viene appiccicata ad un obeso la cui conformazione fisica è la metafora e la sostanza della sua condizione di marginalità sociale. Che significa? Se il protagonista fosse stato snello, piacione e dinamico, come si presenta Tony Polverino nel video, avrebbe avuto un altro destino? Essere grassi vuol dire essere falliti?

Poi ci lamentiamo che questo paese sta diventando intollerante, ma il razzismo non riguarda solo il colore della pelle. Quella è una scusa banale per poveri idioti, il razzismo è quello che si vive tutti i giorni e che ci porta a sentirci superiori (fisicamente, socialmente, economicamente ecc.) rispetto all’altro considerato inferiore. Per quanto questo modo di fare sia un atteggiamento difensivo, rimane tuttavia un’espressione latente dell’odio umano pronta ad attivarsi ogni qual volta ci sentiamo insicuri in un mondo che ci fa paura.

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