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Esequie per il lavoro che non c’è. Ma il primo maggio ci riguarda ancora

La disoccupazione e la precarietà fanno venir voglia di non festeggiare. Ma questa è la festa contro tutte le schiavitù, contro la perenne tentazione di succhiare il sangue a chi produce. Ci riguarda tutti e va festeggiata.
A cura di Antonio Menna
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La tentazione, oggi, primo maggio, è di celebrare un funerale. Le esequie per il lavoro che non c'è. E' comprensibile. Un Paese con 3 milioni di disoccupati, milioni di precari, tanti inattivi, non può festeggiare. Ma proverei, per una volta, ad andare alla radice. Il primo maggio non c'entra nulla con la diaspora tra lavoratori e disoccupati. La festa nasce per ricordare la prima conquista operaia: l'orario di lavoro quotidiano fissato in otto ore. Si ottenne nell'Illinois nel 1867. Il primo maggio nasce per indicare al mondo una battaglia su un diritto fondamentale, e poi per commemorare chi (la rivolta di Chicago) sulle lotte ci ha rimesso la vita. Non è, dunque, la festa del lavoro, o dei lavoratori, a cui opporre la triste agonia del disoccupato o il calvario del precario. E' la festa dei diritti sul lavoro, contro tutte le schiavitù, gli sfruttamenti, la perenne tentazione di succhiare il sangue a chi produce. Vista così, direi che ci riguarda ancora. Che ci riguarda tutti.

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Antonio Menna, giornalista, scrittore autore tra gli altri del libro "Se Steve Jobs fosse nato a Napoli".
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