“Ero schiavo della cocaina, ma qui mi sono ritrovato”: la vita in una comunità di recupero
C'è chi già è riuscito a vincere la propria battaglia, ricostruendosi una nuova vita proprio grazie ad un'altra opportunità offertagli da chi non lo ha mai lasciato solo nei momenti più difficili, e chi è ancora a metà del percorso, ma con le idee chiare e volontà da vendere per centrare l'obiettivo. Sono le storie che si intrecciano a "La Rupe", comunità maschile per adulti con problemi di dipendenza a Sasso Marconi, nel Bolognese. Una realtà attiva dal 1984 e gestita dalla cooperativa Open Group, dove ci sono venti posti (attualmente 18 occupati) per persone dai diciotto anni in su, che arrivano sulle alture fra Emilia e Toscana spontaneamente, su indicazione dei SerDp (Servizi per le dipendenze patologiche) o per un periodo di misura alternativa alla detenzione per persone sottoposte al carcere.
"Il progetto standard dura più o meno diciotto mesi -spiega la responsabile Agnese Innocenzi-, però non è basato esclusivamente sui tempi, ma su obiettivi da raggiungere, quindi può durare anche molto meno o molto di più". In cosa consiste? Lo chiarisce Stefano (nome di fantasia), giovane ospite della comunità da circa sei mesi. "Inizialmente è dura -assicura-, ma poi diventa quasi un'abitudine. Anche perchè qui non ci sono regole molto severe, però di conseguenza si lavora molto sull'autonomia. Il primo mese niente telefonino e per i primi quattro non si esce dalla comunità". Le visite dei parenti e degli amici, purchè non siano anche loro dediti ad abitudini poco utili per disintossicarsi, assicurano i responsabili, sono invece garantite quasi da subito: è anche un modo per coinvolgere gli affetti nel percorso degli ospiti, aiutando pure gli stessi operatori ad affrontare al meglio le singole situazioni. "Dopo concedono un'uscita settimanale ma sempre controllata e programmata -continua Stefano-: c'è un rientro molto lento. Poi c'è il tirocinio, che è la fase finale, in cui uno si interfaccia anche col mondo del lavoro, e infine, se si è in equilibrio, si torna in società". L'ultimo passaggio è infatti garantito dalla possibilità di vivere in autonomia in un immobile nella stessa area della comunità, dove riprendere quasi del tutto la propria autosufficienza, anche economica, spostandosi con maggiore libertà dal centro di accoglienza.
"Il nostro è un approccio che si basa su un intervento di tipo bio-psicosociale" riprende Agnese Innocenzi. Il cardine de La Rupe è il laboratorio di ergoterapia, dove gli ospiti lavorano concretamente per l'assemblamento di pezzi elettronici per un cliente esterno. Un lavoro vero, insomma, con tempi e richieste da rispettare, così come alcune regole di vita quotidiana. Dal pranzo, inteso sia come preparazione e gestione della cucina e della dispensa (a turno) e sia come orario fissato per essere tutti presenti in sala, fino alle pulizie, passando per le attività pomeridiane di gruppo, anche col supporto di psicologi. Se necessario, non manca inoltre l'utilizzo di farmaci, soprattutto nel primo periodo in comunità, quando la montagna da scalare è ancora altissima.
"La persona ogni giorno sceglie di rimanere in comunità -aggiunge la responsabile de La Rupe-. Non ci sono cancelli, non ci sono vincoli, è uno spazio aperto. Se la persona non si sente più motivata e decide di voler abbandonare il percorso viene in ufficio e lo comunica". Ma è bene ricordare una cosa importante: "Alle volte queste decisioni sono dettate dall'impulsività e dal desiderio di tornare sul territorio magari a consumare la sostanza. Quindi quello che facciamo è cercare di motivare la persona a prendere un po' di tempo, cercando di capire qual è la scelta più giusta". Lo sa bene ad esempio Massimo Scardetta, oggi dipendente a La Rupe, dopo quattro anni non semplici proprio all'interno della comunità, col desiderio di riuscire a "ricominciare una vita normale. Mi facevo di tutto, coca, eroina" continua. Dopo la sua esperienza nel centro di accoglienza, Massimo adesso si occupa del laboratorio e ha una nuova compagna. Ogni giorno legge il suo nome sugli scatoloni che sposta col muletto e per lui è una delle più grandi soddisfazioni in assoluto. Non è stato facile, ma ce l'ha fatta. "La droga è morte -conclude-, non è vita".