Eppure Milano non riesce a liberarsi di Vittorio Mangano
Sarà che per un decennio abbiamo letto e ascoltato dappertutto che Vittorio Mangano fosse solo un vecchietto dedito ai cavalli, finito in affari sporchi di mafia perché "sfortunato" (disse testualmente così, Silvio Berlusconi, durante una convention di partito) o forse sarà che parlare di Mangano in fondo significa non fingere di essersi dimenticati del processo che ha condannato Marcello Dell'Utri (e con lui un bel pezzo di classe dirigente e politica italiana) fatto sta che difficilmente una famiglia mafiosa ha potuto godere di un così labile controllo sociale riuscendo ad allargare i propri affari anche nella sua seconda generazione.
Quando nel settembre del 2013 il nome di Vittorio Mangano torna a comparire nelle cronache giudiziarie ha il volto pulito e sorridente della figlia Cinzia, a capo della gestione di un'intricata tela di cooperative che riciclavano denaro occupandosi di facchinaggio, autisti e servizi. Cinzia Mangano aveva organizzato un'attività criminale che passava dalle false fatturazioni fino all'uso di manodopera clandestina. Le carte giudiziarie parlavano di «un enorme flusso di denaro» gestito con la complicità del genero Enrico Di Grusa (marito dell'altra figlia di Vittorio Mangano, Loredana) e Pino Porto, Walter Tola, Vincenzo Tumminello, Orlando Basile, Antonio Fabiano e Alberto Chillà. Un'associazione a delinquere di stampo mafioso che non disdegnava nemmeno l'estorsione verso alcuni imprenditori.
Una vicenda che riporta ai tempi bui della Milano sotto scacco da parte di Cosa Nostra e degli indicibili accordi tra mafiosi, uomini di potere e colletti bianchi. E sono proprio i colletti bianchi i protagonisti della nuova puntata di oggi che vede alla sbarra i fratelli Rocco e Domenico Cristodaro accusati di essere i cassieri dei Mangano. Un tesoro immenso che costruito su aziende false e una rete di prestanome: 1.200 immobili e un'azienda che il commercialista calabrese (residente a Palazzo Pignano in provincia di Cremona) avrebbe accumulato senza destare nessun sospetto. Solo grazie ad una recente presunta evasione di 128 milioni di euro gli uomini della Guardia di Finanza di Cremona (coordinate dalla DDA di Milano) sono arrivati a lui.
Sono diventati grandi, i Mangano, e sono riusciti ad inserirsi perfettamente nel tessuto economico lombardo. Già l'inchiesta ‘Esperanza' del 2013 aveva raccontato come la piccola famiglia partita da Pagliarelli e Porta Nuova a Palermo fosse riuscita a conquistare un pezzo di Lombardia: ci furono perquisizioni a Peschiera Borromeo, Bresso, Corsico, San Donato Milanese, Brugherio, Trezzano sul Naviglio), nella provincia di Varese, a Monza, a Lodi e a Cremona. "Non abbiamo bisogno di presentazioni, basta il cognome che portiamo" diceva intercettata Cinzia Mangano, consapevole di una caratura criminale di cui solo Bruno Vespa e una gran parte del Parlamento degli ultimi anni sembra non essersi resa conto.
La mafia dei Mangano (che operano evidentemente in accordo con le ‘ndrine calabresi sul territorio e spunta anche un collegamento con Salvatore Morabito dell'omonimo clan calabrese) opera nelle minacce e nelle intimidazioni esattamente con le stesse modalità usate in Sicilia, esattamente con lo stesso modo di agire del padre qualche decennio fa. E la Lombardia tutto intorno? Intontita tra negazionisti resistenti e retorica sulle mafie finanziarie e i colletti bianchi, non si è ancora accorta di avere degli interstizi di impunità in cui i boss possono ancora atteggiarsi da boss. Una storia che sembra degli anni '80 e invece sta ben piantata nella luccicante Milano dell'Expo o nella florida Padania sorvegliata da Maroni e che nonostante i proclami ancora non riesce a scrollarsi di dosso Vittorio Mangano. Come in un brutto film. Fin troppo lungo.