Esattamente trent'anni fa, il 18 maggio del 1988, pochi mesi dopo essere stato assolto dalla Cassazione con formula piena dalle infamanti accuse mosse dalla Procura nel 1983, Enzo Tortora muore, stroncato dal male incurabile – che era solito chiamare "la bomba atomica" – che l'aveva improvvisamente colpito durante gli anni del suo calvario giudiziario.
Enzo Tortora venne arrestato, in piena notte, il 17 giugno 1983, su mandato spiccato dalla Procura di Napoli. Traffico di sostanze stupefacenti e associazione di stampo camorristico, le accuse contestategli, mosse da due pentiti: Pasquale Barra e Giovanni Pandico. Il processo che seguì il clamoroso arresto si basò tutto sulle dichiarazioni di pentiti. Un vero e proprio processo indiziario, che non aveva alcuna prova a supporto del teorema accusatorio plasmato dal pubblico ministero titolare del caso, Diego Marmo. "Io non sono innocente. Io sono estraneo", continuava a ripetere Tortora, durante i mesi trascorsi in galera e per tutti gli anni a seguire. Per molti anni pochi gli credettero. Enzo Tortora perse il lavoro, fu allontanato dalla Rai, molti colleghi lo rinnegarono, molti giornalisti scrissero in lungo e in largo della sua presunta colpevolezza, colpevolezza che pensavano fosse provata dall'arresto effettuato in piena notte. "Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto", dichiarò la giornalista Camilla Cederna.
Due anni dopo il sensazionalistico arresto, il 7 dicembre del 1985, Enzo Tortora fu condannato a dieci anni e sei mesi di carcere. Venne definito "cinico mercante di morte" e individuo socialmente pericoloso dai magistrati. Meno di un anno dopo, il quadro probatorio viene ribaltato e Tortora viene assolto.
Gli elementi su cui si fondavano le accuse erano pochi e labili: un'agendina trovata nell'abitazione di un camorrista, Giuseppe Puca detto O'Giappone, in cui venne ritrovato un nome scritto a penna che inizialmente si pensò essere quello di Enzo Tortora, corredato da un numero di telefono. Una perizia calligrafica, svolta successivamente, rivelò che il nome scritto era in realtà Tortona e, inoltre, venne provato che il recapito telefonico a lui legato non apparteneva al presentatore televisivo. Le successive indagini e perizie stabilirono inoltre che l'unico contatto avuto da Tortora con Giovanni Pandico fu una lettera inviata da Tortora al detenuto in cui il presentatore si scusava perché la redazione del programma Portobello aveva perso dei centrini che erano stati inviati per essere venduti all'asta all'interno del programma da lui condotto. Pandico, inoltre, soffriva di schizofrenia paranoide, patologia che lo portò a maturare un sentimento di vendetta nei confronti del presentatore che sfociarono in una lunga serie di lettere a carattere intimidatorio a scopo di estorsione. Alle accuse di Pandico e Barra si aggiunsero quelle di Giuseppe Margutti e della moglie Rosalba Castellini, che dichiararono di aver visto Tortora spacciare droga negli studi di Antenna 3. Tutte le accuse si rivelarono false.
Nonostante l'assoluzione con formula piena e la conferma in Cassazione, qualche anno dopo, in seguito a una denuncia per diffamazione aggravata sporta dalle figlie di Tortora contro uno dei suoi grandi accusatori, il Gip Clementina Forleo rigettò la richiesta, motivando: "La sentenza di assoluzione del Tortora rappresenta soltanto la verità processuale sul fatto-reato a lui attribuito e non anche la verità reale del fatto storicamente verificatosi". Nulla valsero, evidentemente, due sentenze di assoluzione, per la Forleo.
"In quelle orrende mura del carcere, mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro", disse Tortora in una delle sue ultime apparizioni televisive. Si riferiva al tumore che lo colse durante gli anni del calvario giudiziario e che lo stroncò nemmeno un anno dopo l'arrivo della sentenza di assoluzione definitiva della Cassazione, il 18 maggio del 1988.
Nessuno dei pentiti che accusò Tortora venne condannato per calunnia. I pubblici ministeri titolari dell'inchiesta hanno proseguito la loro attività facendo grandi carriere. Né Tortora, né i suoi familiari vennero mai risarciti per l'ingiusta detenzione perché all'epoca non esisteva ancora la Legge Vassalli, che venne emanata proprio sulla scorta dell'allucinante errore giudiziario commesso ai suoi danni.