“Test, test e ancora test? No: territorio, territorio e ancora territorio. Perché se tutti finisco nel collo di bottiglia degli ospedali non ne usciamo più”. Enrico Rossi è presidente della Regione Toscana dal 2010 e il suo secondo e ultimo mandato, se non fossero state rinviate le elezioni, sarebbe finito in queste settimane. Nei cinque anni precedenti, tra il 2005 e il 2010, Rossi era stato assessore regionale alla sanità della giunta Martini, proprio nella fase successiva alla riforma del titolo V della Costituzione, che aveva assegnato alle regioni il compito di occuparsi della salute degli italiani, costruendo un sistema che insieme a Veneto. Emilia – Romagna e Lombardia rappresenta ancora oggi il fiore all’occhiello del sistema sanitario nazionale: “L’emergenza Coronavirus ha picchiato duro anche in Toscana – racconta Rossi a Fanpage.it – soprattutto negli ospedali del nord ovest. Ma per ora stiamo riuscendo a gestire l’emergenza”.
Come ci state riuscendo, presidente? Si temeva che la Toscana sarebbe stata travolta dal Coronavirus: nessuna regione in Italia ha una comunità cinese numerosa come quella di Prato…
Anche noi ci aspettavamo la botta su Prato e sulla Toscana centrale, se devo essere onesto. Poi in realtà è successo che a Prato i cinesi che erano andati in Cina per il Capodanno si sono messi volontariamente in quarantena prima di tornare. Noi li abbiamo intercettati al rientro e abbiamo messo in isolamento 1500 persone, forse addirittura più di 2000 con gli ultimi rientri. Per questa cosa siamo stati massacrati da politici e pure da autorevoli virologi. In realtà questa mossa ha funzionato benissimo. Oggi Prato è la provincia con il minor numero di casi in Toscana. I cinesi si sono comportati con molta disciplina e la sorveglianza attiva dei cinesi ha prodotto un risultato eccellente di prevenzione.
Se non dalla Cina, da dove è entrato il virus?
Il problema l’abbiamo avuto nel nord ovest della Toscana, nei territori delle seconde case, dalla Lunigiana alla Versilia. E poi nel pistoiese che è collegato alla via Emilia con l’Abetone. E anche, in misura minore, nel Casentino, che confina con le Marche. Parliamo di territori in cui si sono rifugiate gran parte delle persone che poco prima della chiusura, soprattutto dalla Lombardia, sono andate via rapidamente per scampare al lockdown. Le do un numero: il 25% dei casi nel nord ovest della nostra regione sono senza medico di famiglia e questo vuol dire solo una cosa: che hanno il medico di famiglia, e residenza, da un’altra parte.
Nella gestione del coronavirus, almeno sinora, la Toscana è, insieme al Veneto, un esempio di gestione virtuosa. Eppure voi, a differenza del Veneto, non avete fatto tamponi di massa…
Noi puntiamo a fare 4000 tamponi al giorno, che non sono pochi. Un tampone ci mette da 4 a 7 ore per essere analizzato. Per farlo abbiamo allargato a tutti i laboratori pubblici che potevamo mettere al lavoro, abbiamo fatto anche un accordo con un privato che di 4000 ce ne fa un migliaio. Ma il tampone non è la soluzione. Coi soli tamponi non riesci a tenere la situazione sotto controllo. Per questo noi abbiamo adottato la soluzione dello screening sierologico.
Di che si tratta?
Si tratta di un esame del sangue un esame del sangue che svela la presenza di anticorpi indicativi del passaggio del virus. Il risultato arriva in 4 minuti. Adesso abbiamo in corso la realizzazione di 500mila screening sierologici, a partire ovviamente dalle 60mila persone che lavorano nella sanità pubblica e privata, dai medici agli infermieri agli operatori socio sanitari. Ormai sappiamo che gli ospedali sono tra i maggiori centri di diffusione di questa epidemia.
Come avete fatto a evitare che anche da voi gli ospedali non diventassero centro di diffusione del Coronavirus?
Il colpo l’abbiamo preso anche noi, negli ospedali del nord ovest. Ma per noi la strategia non è mai stata quella di ospedalizzare tutto. Quindi certo, abbiamo aumentato i posti in terapia intensiva e migliorato tutti i protocolli di sicurezza. Ma non vogliamo cadere nell’illusione che la malattia si cura tutta negli ospedali: tu puoi pure triplicare o quadruplicare i posti in terapia intensiva, ma se non fai nulla prima quei posti si riempiono alla velocità della luce. Che poi mi pare sia quella che è successo in Lombardia.
Se non gli ospedali, cosa?
La nostra idea è quella di tutelare al massimo la struttura ospedaliera, separare i pazienti Covid e no Covid in modo molto rigoroso fare i tamponi a chiunque entra e lo screening sierologico a tutti i sanitari per vedere chi ha contratto o meno la malattia. Ma poi dobbiamo puntare tutto sul territorio. In questi giorni, stiamo allestendo alberghi sanitaricon una sorveglianza medico-infermieristica dove alloggiare persone affette dal Covid-19.
Al posto degli ospedali?
Non sostituiscono la terapia intensiva, ovviamente. Ma sono posti in cui possiamo ricoverare coloro che manifestano sintomi leggeri di Covid dando loro assistenza di ossigeno. E posti per chi esce dalla terapia intensiva per continuare la cura d’ossigeno più leggera, fuori dagli ospedali. E alberghi sanitari, come ho detto, per chi deve riacquistare la negatività completa. Su questo puntiamo molto, nel caso che le cose peggiorino. Anche se i dati di questi ultimi giorni raccontano di una progressivo rallentamento dei contagi: una situazione di stabilizzazione della crescita, non più esponenziale. Che piano piano sta rallentando.
Cos’avete imparato, finora, dall’emergenza Coronavirus?
Ci sono due lezioni che abbiamo tratto da questa vicenda: la prima lezione è che bisogna avere sempre posti letto di terapia intensiva pronti all’uso. Un giorno ci dovremo domandare il significato di tanta riduzione dell’attività programmata. Noi non abbiamo ridotto i posti letto in terapia intensiva, in questi anni. Ci sono stati tagli, ma su quello abbiamo tenuto. Secondo me però dobbiamo dotarci di una riserva per l’emergenza. Lo facciamo con l’esercito, anche in tempo di pace. Perché non farlo con la sanità, in previsione dell’emergenza? Io, visto che sono in scadenza di mandato, vorrei consegnare al mio successore le chiavi dei posti in terapia intensiva dicendogli: “Ora chiudiamo: riapriteli una volta all’anno per fare un esercitazione.
La seconda lezione?
Che gli anziani, in queste situazioni, vanno completamente isolati. Noi gli stiamo portando anche i pasti. Forse con un misura più mirata su di loro avremmo migliorato la risposta a questa malattia. Ma non voglio fare polemica, sto cercando di riflettere.
Nel frattempo, si parla di un calo del PIL di 7 punti percentuali. Cosa ci aspetta dopo l’emergenza sanitaria?
Si rischia un massacro sociale, se non c’è un iniezione potentissima di liquidità a favore delle aziende. Abbiamo spento il motore del paese, riaccenderlo non sarò facile, senza mettere in conto i cambiamenti che ci saranno sulla scena globale. Indietro non si torna. Bisognerà costruire nuove filiere internazionali e nuove filiere interne che si sappiano intrecciare bene con la transizione ecologica. Il punto vero l’ha toccato Draghi: lo Stato deve spendere. Come in guerra. Se non si vuole che aumenti la disoccupazione e arrivi una fase di depressione devastante, che produce a sua volta un arretramento dello stato sociale. C’è il rischio che la crisi economica che ne seguirà faccia più morti del virus.