Per un bambino la casa è il posto più sicuro al mondo. Oppure il più pericoloso. E questo ce lo dimostra la cronaca.
Negli ultimi vent’anni l’opinione pubblica ha dovuto fare i conti con un’innaturale consapevolezza: le madri possono togliere la vita ai loro figli. Proprio le stesse donne che avrebbero dovuto prendersene cura e guidarli nella crescita.
Ed è per questo che l’opinione pubblica non mette mai in discussione, almeno inizialmente, racconti inverosimili come quello costruito da Martina Patti, la madre di Elena Del Pozzo.
E ciò, purtroppo, perché è fortemente insito nella società lo stereotipo secondo il quale le donne sono biologicamente predisposte all’amore, così come all’annullamento della propria persona, nei confronti dei figli che hanno generato.
Questo convincimento, però, non ha contagiato chi come me opera da anni sulla scena del crimine. E neppure gli inquirenti.
Gli stessi investigatori, dopo aver escluso la pista della criminalità organizzata e del rapimento a fini di estorsione, hanno indirizzato sin da subito le ricerche proprio nell’abitazione di chi aveva donato la vita a Elena: sua madre.
Del resto, era drammaticamente preventivabile: nessun riscontro oggettivo, nessun testimone che avvalorasse la storia del rapimento.
Nessuno che avesse visto un commando di uomini incappucciati aggirarsi in pieno giorno e in un orario di punta. Per giunta, nell’orario di uscita da scuola dei bambini.
Nessuno, aggiungo, lo ha visto perché quel commando non è mai esistito. Se non, ma dovremmo spostarci in Sardegna, al tempo del banditismo degli anni ’60.
Così, Martina Patti, poco più ventenne, ha confessato e fatto ritrovare il corpo esanime della figlia.
Cosa induce una madre a inscenare il rapimento di una figlia
Cosa spinge una madre a inscenare il rapimento di una figlia? Dal punto di vista criminologico la risposta è semplice. Da quello logico, invece, è incomprensibile.
Ma solo umanamente. Tutte le madri mortali, difatti, dopo aver commesso un figlicidio, mettono in atto una serie di depistaggi volti ad allontanare da sé qualunque sospetto. E lo fanno arricchendo la narrazione ed esagerando nei dettagli. Con lo scopo precipuo di rendere, nella loro ottica, maggiormente verosimile il racconto.
Quel racconto che, però, nella quasi totalità delle ipotesi, le induce in contraddizione o a rappresentare eventi più simili a un thriller che a una tragica pagina di cronaca nera. In questo senso, la narrazione eccessivamente descrittiva di alcuni frangenti, ed eccessivamente povera in altri, è un chiaro indice menzognero per la psicolinguistica forense. Mi spiego.
Un rapimento, con quelle modalità, non era né credibile né prospettabile. Non solo dal punto di vista della sequenza e della modalità degli accadimenti, ma anche da quello della scientificità della testimonianza stessa.
La madre di Elena ha parlato di un commando armato, fatto di uomini incappucciati che avrebbero prelevato la bambina e si sarebbero poi volatilizzati via con un’auto. Della quale, però, non ha saputo riferire non solo il modello e la targa, ma neppure il colore.
Ebbene, chi, come me, segue quasi quotidianamente casi di omicidio, inevitabilmente conosce quanto sia fondamentale una testimonianza per l’attribuzione di responsabilità. Persino, o in certi casi soprattutto, gli errori commessi nel riportarla da chi mente.
Torniamo a Martina Patti. Quest’ultima ricordava dettagliatamente le modalità con le quali, stando al suo racconto, la bambina era stata sottrattale. Comando armato, uomini incappucciati.
Senza, però, ricordare un elemento che – con prossimità vicino alla certezza – avrebbe dovuto ricordare: il colore dell’auto. Certamente, la capacità di riferire un evento in modo sovrapponibile alla realtà è messa a dura prova dallo stato emozionale e dallo stress vissuto nel momento in cui l’evento si verifica.
Ma questo assioma porta a un’altra conclusione inconfutabile: o si ricordano tutti i dettagli, o il ricordo svanisce del tutto. Non è possibile fare selezione all’ingresso dei particolari. La madre doveva necessariamente avere un ricordo vivido. In questo senso, il ricordo non è una fotografia soltanto laddove abbiamo a che fare con situazioni di routine. Non con il rapimento di una figlia.
Non chiamatela follia
È difficile delineare una spiegazione univoca in relazione alle cause che portano una madre a uccidere. Tuttavia, considerata l’inconcepibilità del gesto, la collettività va sempre alla ricerca di una presunta follia della madre sanguinaria.
Ma non è sempre follia. Il motivo, però, per il quale si cerca di scomodare un qualcosa di patologico nel genitore mortale è riconducibile al desiderio di soffocare il senso di ansia e di perdizione delle donne.
Difatti credere che, di fronte a gesti di questo tipo, ci siano degli scenari psichiatrici avvalora il convincimento per il quale, in assenza di patologie, non possa accadere niente di simile. “Ha ucciso sua figlia perché vittima della sua stessa follia”.
Io non sono pazza, quindi non farò mai niente del genere. Purtroppo, però, come anticipavo non è così. Almeno non sempre. E allora perché le madri uccidono i figli? In ballo ci sono quasi sempre più variabili. Tuttavia, nella prevalenza dei casi, le madri uccidono i figli per vendetta.
Per riscattare un torto, reale o solo presunto, subìto per mano di un compagno o ex compagno. Scenario, quest'ultimo, che potrebbe trovare riscontro nelle parole della zia paterna di Elena. Secondo la quale la nuora avrebbe tentato di incastrare proprio suo fratello nonché il padre della piccola uccisa.
Come uccidono le madri Medea?
Tendenzialmente fanno ricorso a oggetti contundenti o utilizzano armi da punta e da taglio. Non meno infrequenti, invero, sono anche l'annegamento, la defenestrazione e il soffocamento. Martina Patti ha confessato di aver ucciso la figlia Elena, ma non sempre ciò avviene. Ci sono madri che, per non perdere la vicinanza dei familiari rimasti, negano per sempre. Come Anna Maria Franzoni.
Madri assassine
Elena Del Pozzo come Samuele, Loris e Gioele. Vittima della mano assassina di chi l’aveva messi al mondo. Anna Maria Franzoni, Veronica Panarello, Viviana Parisi e oggi Martina Patti. Donne, prima che madri, che si sono macchiate del più terribile dei crimini.